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Fase 2: ripartire dopo il virus. La corsa per salvarsi tra scienza e politica

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annuncia oggi la task force per progettare la strategia con cui sbloccare il Paese e ripartire dopo l’epidemia. Gli Usa sono immersi nella fase più intensa della pandemia – cinquecentomila contagiati testati, oltre 23mila vittime, il Paese più colpito al mondo – ma la Casa Bianca vuole correre verso la cosiddetta “Fase 2”. La riapertura – su cui Trump è anche entrato in contrasto col virgolo-in-chief, Anthony Fauci – è frutto di una triplice necessità.

Il presidente sa che non può più scivolare in esitazioni ed errori – tanti sono stati all’inizio, quando ha sottovalutato la potenza del virus SARSCoV2. In ballo c’è la rielezione, e con i Democratici compattati attorni a Joe Biden (almeno per ora), l’approval schizzato in alto e ora di nuovo in discesa, Fauci considerato la voce più affidabile in mezzo alla tempesta, i rischi crescono. Tre, si diceva, le questioni sul tavolo.

Primo, la necessità di far muovere l’economia del colosso americano. Il grafico in cui viene rappresentato il picco delle domande di disoccupazione nelle ultimi settimane è impressionante: qualcosa senza precedenti per magnitudine. È un problema economico, chiaramente – che sfocia nel confronto internazionale (i rivali cinesi, per esempio, sono già più o meno ripartiti, tra propaganda e realtà) – ma è anche una questione sociale. È questo il secondo problema: le file davanti alle armerie di qualche settimana fa sono un indizio. Si sommano il lockdown, la crisi econonico-lavorativa, le psicosi personali che l’isolamento incrementa. Risultato: rischio di tenuta sociale – sbloccare diventa una necessità anche sotto questo quadro.

Aspetto che (e qui siamo al terzo punto) non viene sottovalutato dai governatori. Ed ecco che la questione scivola sul piano politico. Trump vuol guidare la ripresa, la rinascita, dell’Unione come “autorità suprema” (come scrive su queste colonne Giampiero Gramaglia), ma la situazione rischia di sfuggirgli di mano, perché ci sono alcuni governatori che stanno prendendo iniziative indipendenti. California, Oregon e Washington a Ovest; New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware e Rhode Island formano un gruppo di lavoro per pianificare una riapertura nella regione nord-est. È una geopolitica fatta di alleanze regionali per coordinare la riapertura dei rispettivi sistemi statali. Coalizioni di Stati dell’Unione contro l’Unione.

In mezzo alla crisi per esempio s’è distinto Andrew Cuomo, che dallo Stato di New York ha diretto le operazioni come un leader solido e affidabile. Ha ottenuto consensi – tanto che è diventato l’attore protagonista dell’opposizione, e ancora circola l’ipotesi che debba sostituirsi a Biden, messo in sordina dall’impossibilità di stare in mezzo agli elettori. Cuomo ha ottenuto vantaggi strategici che gli hanno anche permesso – con alle spalle uno stato forte, con al centro la città più rappresentativa d’America, e allenato nella palestra di leadership che la crisi è diventata – di fare scatti in avanti su dossier di politica internazionale. Per capirci: la Cina ha inviato a New York City dei ventilatori polmonari, e non è poco in mezzo al confronto globale tra Usa e Pechino.

L’autorità centrale può permettersi il crearsi di spazi così importanti tra le amministrazioni locali? E non è solo (sebbene anche) qualcosa che riguarda la critica fase elettorale. È una lotta di carattere politico-istituzionale molto profonda. Nell’emergenza, chi prima ne esce ottiene il vantaggio strategico. Ma poi: che precedenti si aprono? E non si risparmiano colpi bassi. La National Review mette in evidenza per esempio che i dati della California – dove i contagi sono limitati e altrettanto i decessi – potrebbero essere falsati.

Oggi, 14 aprile, riparte anche la California d’Italia, il Veneto – similitudine collegata alla situazione epidemiologica, ma anche allo standing che la regione ha all’interno del tessuto socio-economico e politici italiano, assimilabile a quello che la California è per gli Usa. Il governatore Luca Zaia nei giorni scorsi ha detto che il 60 per cento delle aziende venete è di fatto operativo e non possono fermarsi: da oggi lo sblocco riguarderà anche alcune attività, come il limite di 200 metri delle attività motorie. “È un atto di fiducia verso i veneti”, dice Zaia, che richiama a un concetto intimo, il patto sociale con i propri cittadini, rinnovato durante la crisi – e con un occhio, anche lui, alla rielezione imminente.

Nella nuova ordinanza restano restrizioni (per esempio, “niente pic nic” per le prossime festività, social distancing ai supermercati, obbligo di dispositivi sanitari personali: mascherine e guanti, e igienizzante), ma il messaggio è chiaro: inizia la ripartenza. Uno scatto in avanti rispetto alla linea del governo centrale, che ancora non ha definito la strategia per il prossimo futuro e ha soltanto recentemente istituito una task force per costruirla. Aspetto strategico, di nuovo: ripartire prima degli altri. In Veneto il decisore politico è stato capace di prevedere e affidarsi ai consigli di tecnici ed esperti: “Le aperture sono un banco di prova”, dice il virologo dell’Università di Padova, Andrea Crisanti, considerato il motore scientifico del “Modello Veneto” che i media internazionali celebrano come best practice di riferimento. Forza che permette a Zaia anche proiezioni su dossier di altro livello, ad esempio il micro-managing sull’arrivo dell’ospedale da campo – “modello luxury” dice il governatore – dal Qatar.

Anche nel caso Veneto c’è la sovrapposizione di più fattori: quello economico, quello della competizione politica, e quello sociale. Il punto lo centra Flavia Perina, giornalista, scrittrice ed ex politica italiana, che in un post molto condiviso su Facebook scrive: “Il governatore veneto Zaia è il primo ad accorgersi della deriva talebana che sta prendendo la quarantena” e ” la criminalizzazione rancorosa del relax […] non ha nulla a che vedere con la lotta al virus, ma piuttosto con una svolta psicologica da Loya Jirga dell’autorità”. Sono le armi negli Usa: in un paese dove la Guardia di Finanza fa salire sul un proprio elicottero gli inviati del programma televisivo condotto da Barbara D’Urso per filmare l’inseguimento dei multati, il rischio è la deriva sociale dell’isolamento.

Di riavvio si sta discutendo ovunque, sia in Europa che altrove, perché è chiaro che il sistema di chiusura/apertura è l’elemento che garantisce quel vantaggio strategico in questo nostro contemporaneo dopoguerra. Il generale che guida gli studi di Sicurezza strategica all’Università di Tel Aviv, il professore Isaac Ben-Israel, sostiene che sia arrivato il momento di sbloccare il lockdown nel suo paese per permettere all’economia di recuperare “il 50 per cento in due settimane”. Ben-Israel, matematico di fama mondiale che tra le altre cose guida anche il Consiglio di ricerca e sviluppo del paese (che è uno dei modelli, anche invasivi, per il contenimento pro-attivo del coronavirus), dice che il virus va in “aumento fino alla quarta-sesta settimana e subito dopo in moderazione fino a quando scompare durante l’ottava settimana” e secondo i suoi modelli questo è indipendente dal lockdown o meno – cita i casi dell’Italia e di Taiwan agli estremi.

Anche in Israele, dove la disoccupazione tocca livelli altissimi e in crescita, e dove in tre elezioni in un anno non si è riuscito a costruire un governo, le necessità si sommano. Benny Gantz e Benjamin Netanyahu hanno un extra time per formare un governo di accordo entro la mezzanotte di mercoledì: un esecutivo che al di là delle distanze partitiche e i guai personali dell’attuale premier, potrebbe nascere proprio sull’onda della crisi. Oppure il paese potrebbe restare in stallo, guidato dagli apparati. Le visioni di Ben-Israel vanno lette anche nell’ottica della necessità.

Nei giorni scorsi, anche Confindustria aveva pressato sulla linea del riavvio: serve iniziare a pianificare le riaperture, perché altrimenti l’effetto economico sarebbe stato più devastante del virus stesso (detto con un’iperbole) diceva l’associazione italiana. Rispondeva Walter Ricciardi, membro italiano dell’Oms e del Comitato tecnico scientifico della Protezione civile, che spiegava che “se sai che la riapertura non potrà essere stabile, meglio non procedere”, e alludeva alla possibilità di “seconde ondate” potenzialmente devastanti. La questione è il punto di caduta della crisi.

Lunedì, in conferenza stampa, Peter Navarro, il consigliere per il commercio globale di Trump, ha avvertito che negli Stati Uniti, nel lungo termine, un arresto prolungato del commercio non essenziale potrebbe rappresentare una minaccia più grave per la salute rispetto al virus stesso: “È deludente che così tanti esperti medici […] appaiano sordi alle perdite di vite e ai colpi molto significativi alle famiglie americane che possono derivare da un prolungato arresto economico”.



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