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Covid-19, la lezione del modello Veneto spiegata dal prof. Palù

In poco tempo dal primo caso ufficiale da Covid-19, l’Italia si è trovata ad affrontare una dolorosa e violenta emergenza sanitaria. Nessuno era pronto e l’Italia è stata uno dei primi Paesi a fronteggiare il pericolo della diffusione del contagio. Per gli altri Stati ed anche per noi, ora siamo un esempio da prendere in considerazione offrendo la possibilità di capire cosa ha funzionato e cosa è stato disastroso affinché non si ripeta. Formiche.net ne ha parlato con il prof. Giorgio Palù, già presidente della Società Europea ed italiana di virologia.

Esiste un modello Veneto da prendere in considerazione per la gestione dell’emergenza da Covid-19? I dati registrano una letalità minore e i contagi sembrano crescere di meno.

Il modello Veneto è sicuramente un modello di cultura, di storia e di professionalità nell’ambito di gestione e dirigenza di Sanità Pubblica. Il Veneto è stata la Regione che ha sempre vaccinato più di tutti premiando i direttori generali sulla base delle coperture vaccinali dei distretti territoriali di pertinenza e ciò ben prima della nouvelle vague no-vax che ha colpito non solo l’Italia ma anche gli altri Paesi. Il Veneto, inoltre, ha sempre concepito la sanità pubblica come tale e non come privata, prestando attenzione proprio ai problemi legati alle emergenze, dunque non solo alle necessità clinico-assistenziali ma soprattutto alla prevenzione e più in generale alla cosiddetta Public Health. Questa cultura si è concretizzata in una sanità pubblica diffusa in presidi territoriali radicati nella realtà veneta, con un potenziamento dei medici di medicina generale, pronti a gestire un rapporto diretto con gli ospedali grazie anche ad un aggiornamento costante tramite corsi offerti dalla Regione. Per cui i medici di medicina generale del Veneto, anche nella contingenza attuale, erano preparati a fronteggiare l’emergenza del Sars-CoV-2 che è proprio un’emergenza di Sanità Pubblica. Proprio per questa struttura organizzativa, il Veneto ha previsto tanti letti nelle unità di terapia intensiva (emergency rooms) quanti quelli della Lombardia, Regione nella quale il numero degli abitanti è però quasi il doppio. In aggiunta, ha immaginato una gradualità delle cure intensive.

Oltre il Veneto anche la Lombardia ha un sistema sanitario eccellente ma forse qualcosa non ha funzionato…

Il Veneto figura come eccellenza a fianco alla Lombardia per quelli che sono parametri di valutazione adottati dalla Scuola Sant’Anna di Pisa che fanno tra l’altro riferimento alle attività di pronto soccorso, ai tempi in cui si sblocca un triage, alle liste d’attesa, alla percentuale di ricoveri e alla durata dei ricoveri stessi, all’efficacia delle cure incluse quelle intensivistiche.  In quella classifica figurano bene entrambe le Regioni anche se la valutazione considera parametri prevalentemente di tipo assistenziale. La Lombardia ha fatto molti ricoveri, specie all’inizio dell’epidemia. Precisamente il 66% la Lombardia ed il 20% il Veneto. Il 66% è un dato altissimo per questa patologia che richiede nel 16% dei casi cure e nel 6% una intensività di cure. E in questo caso più ricoveri si fanno e più il contagio si estende come avrebbe già dovuto insegnare l’epidemia di SARS nel 2002-2003. Altro dato oggettivo di riflessione è la letalità che in Lombardia è arrivata al 14% mentre in Veneto si è tenuta al di sotto del 5%. Non per fare paragoni tra chi è migliore o peggiore ma sicuramente il Veneto si è distinto per l’organizzazione e una cultura di Public Health che non nasce ieri ma che è acquisita da lungo tempo e che fa parte della tradizione della Serenissima Repubblica che ha inventato la quarantena, i lazzaretti, che ha vissuto in prima persona i pericoli del contagio e le epidemie portate dall’Oriente. Una cultura basata anche sulla grande tradizione di medicina sperimentale della Scuola medica patavina.

Professore, oltre alla diversa governance territoriale e all’assetto delle strutture, la decisione di fare più tamponi in Veneto è stata utile nel contrastare l’epidemia?

La strategia dei tamponi in Veneto ha influito solo in misura relativa sul controllo dell’andamento epidemico. È giusto fare tamponi ai sintomatici e a tutti i contatti dei soggetti positivi al test come suggeriscono le linee guida dell’Oms ma è impensabile effettuarli su tutta la popolazione. In Sud Corea ne sono stati fatti tanti perché lì c’era un chiaro focolaio, all’inizio composto da circa 200 persone tutte andate nella stessa chiesa e quindi nel giro di 96 ore i coreani hanno ricostruito con questionari e indagini tutti i contatti e giustamente hanno fatto tamponi a tutti. In quella fase sì che andavano fatti ma ora è inutile estenderli indistintamente alla popolazione perché il virus purtroppo si è ormai largamente diffuso e non sappiamo nemmeno quanto. I test possono dare una misura dei nuovi casi incidenti ma non di quanto circoli il virus. Il confinamento a casa e il distanziamento sociale sono le misure che permettono la riduzione dei contagi. Quindi il tampone è utile per monitorare chi può diffondere il virus ai soggetti più gracili (anziani, bambini leucemici, immunodepressi, pazienti in chemioterapia) dunque a chi è in prima linea come i medici, gli infermieri i tecnici sanitari. Va fatto nelle case di riposo, a chi per legge deve correre dei rischi come i carabinieri, finanzieri, poliziotti, pompieri, gestori di pubblici uffici essenziali. E in Veneto si sta procedendo in questo senso.

Possiamo sperare in un vaccino imminente o in un cocktail di farmaci specifici contro il coronavirus che permetterà una riapertura serena ed omogenea su tutto il territorio?

Per quanto riguarda un vaccino o farmaci specifici se per specifici si intendono quelli disegnati per il nuovo coronavirus Sars-Cov-2, non li potremo avere prima di 18/24 mesi. Anche accorciando alcune fasi che sono imposte dagli enti regolatori quali la fase I, II, III prima della validazione per uso sull’uomo e l’entrata in commercio di un nuovo farmaco o vaccino, non si può comunque evitare di ricorrere a dei trial clinici. Questo richiede tempi di sviluppo uguali per un vaccino e per un farmaco e normalmente ci vogliono 8/10 anni se si seguono tutte le procedure.

È possibile prevedere procedure accelerate in considerazione dell’emergenza?

Ci sono scorciatoie già adottate in passato come accaduto nell’81 per contrastare la pandemia di Aids quando si era scoperto che la Azt era un farmaco efficace. In quel caso, gli enti regolatori hanno deciso di utilizzare l’Azt per ragioni etiche rendendolo disponibile prima di completare tutte le fasi della sperimentazione. E ancora nel 2014 per l’Ebola in Africa occidentale il vaccino, già testato nelle scimmie, è stato sperimentato nell’uomo dopo nemmeno due anni. Sicuramente avremo un vaccino o un farmaco contro Sars-Cov-2 perché tutti i laboratori accademici, così come le grandi Industrie e le biotech, hanno a disposizione la struttura tridimensionale dei principali bersagli del virus che sono la replicasi e la proteasi maggiore. Si possono dunque già saggiare in vitro o sull’animale e molto prima in silico, con studio computazionale, milioni di composti di sintesi e naturali, le cosiddette librerie chimiche e combinatoriali. Si verificherà, dapprima in silico, se questi farmaci abbiano accesso a qualche cavità dei bersagli virali e con quali atomi interagiscano. Questa preliminare indagine può darci una previsione su quali composti siano più promettenti ma ci vuole tempo per testare i candidati farmaci e portarli in clinica. Per quanto riguarda il vaccino ci sono già più di 40 preparati vaccinali pronti per essere studiati. Il più avanzato è quello prodotto da Moderna, una Biotech americana che in collaborazione con l’Nih di Bethesda (Md) lo sta già sperimentando su animali e sui primi volontari per valutare la produzione di anticorpi. Dovremmo però sapere se questi vaccini producono un’immunità neutralizzante, se si tratta un’immunità specifica, se dura a lungo… serve il tempo necessario per tutti questi studi.

Può darci qualche indicazione sui tempi? Fino a quando dovremmo combattere contro questo nemico invisibile?

Tutte le proiezioni matematiche finora avanzate non sono state affidabili perché non era possibile assimilare il modello cinese che prevedeva misure draconiane: isolamento e cordone sanitario per circa 60 milioni di cittadini, impedimento alla mobilità, distanziamento assoluto, sanzioni fino alla pena di morte a chi diffondeva il contagio, misure che hanno portato all’estinzione del virus in 100 giorni. Queste misure non potevano essere prese da una democrazia-liberale come la nostra. Ora che è iniziato il calo del tasso dei nuovi casi positivi (curva deflettiva dell’epidemia), grazie al rispetto delle misure adottate dal nostro governo, si possono fare previsioni più accurate. Adottando quelle formulate dai matematici e statistici che studiano l’andamento epidemico si potrebbe ad esempio prospettare che per metà aprile il numero di riproduzione virale di base Ro, cioè il numero di contatti infettati da un singolo individuo in una popolazione dove tutti gli individui sono suscettibili all’infezione, cali dal valore iniziale di circa 3 ad 1. Se Ro scenderà sotto l’1 vorrà dire che il virus avrà perso la capacità di diffondersi e l’epidemia sarà estinta. Tutto ciò se continuiamo a rispettare in maniera rigorosa le raccomandazioni ripetute più volte, ovvero non muoversi da casa e mantenere il distanziamento sociale oltre alle misure di protezione individuale.

Dobbiamo temere contagi di ritorno? Quanto sta accadendo ad Hong Kong dovrebbe farci riflettere…

Per evitare contagi di ritorno che potranno verificarsi nella fase 2 dell’emergenza, saranno indispensabili gli studi di sieroprevalenza condotti sulla popolazione, in grado di rivelare gli anticorpi specifici contro il virus. Detti studi serviranno anche per capire la vera diffusione dell’infezione e avere dati sull’immunità dei contagiati, sintomatici e asintomatici, e determinare con precisione i reali tassi di letalità e morbosità di Covid-19. Il Veneto proprio in questi giorni ha avviato uno studio di sieroprevalenza esteso, in una prima fase, a tutti i sanitari ed in una seconda fase a larghi strati della popolazione. Questi dati saranno fondamentali per organizzare una linea di condotta comune europea, anche se abbiamo visto che in Europa ognuno prende decisioni diverse, spesso in disaccordo tra i vari Stati ed in totale autonomia. In questo senso l’Europa ha perso un’altra occasione per dimostrare di essere veramente unita.

A breve ci troveremo ad affrontare la fase 2 dell’emergenza. Dovremmo guardare avanti e pensare a come sarà il nostro ritorno alla quotidianità. Avverrà in fasi scaglionate in base alle aperture delle zone meno colpite o in riferimento all’età delle persone?

Sì. Immagino uno scenario graduale permettendo l’accesso all’attività lavorativa per primi ai giovani che magari hanno sviluppato gli anticorpi, non sapendo di essere stati già infettati in precedenza, e continuando a tutelare le persone più vulnerabili come gli anziani. Su questo aspetto, gli inglesi che sono stati criticati da tutti, hanno preso subito misure relative alla salvaguardia delle persone più in là con gli anni. Essendo molto pragmatici, avendo una grande tradizione scientifica ed una cultura neopositivista e valutando oggettivamente le risorse del loro sistema sanitario hanno messo in quarantena gli over 70 sine die. Per quanto riguarda noi, mi prefiguro che la ripresa sia sviluppata in più fasi, lasciando tornare al lavoro i giovani, dando priorità a quelle attività che sostengono il Pil nazionale e l’economia del Paese condizione che permetterà l’erogazione delle pensioni, il supporto alla sanità e ai meno abbienti e così via. Le piccole imprese come i bar, i ristornati, o le imprese di artigianato credo soffriranno molto perché in quelli ambienti il rischio del contagio di ritorno o della permanenza del contagio sarà più alto.

Non torneremo più ad essere come prima almeno per un po’. Torneremo alla quotidianità lentamente portandoci dietro una serie di paure e di protezioni individuali come mascherine, guanti o semplicemente stando a distanza. È così?

Sì. Assisteremo ad un ritorno alla quotidianità che però dovrà tenere in considerazione le dovute attenzioni da parte di tutti noi. Mi permetta di dire che quella del Covid-19 è una grande lezione per quanti all’inizio hanno sottovalutato l’emergenza, per tanti ricercatori e scienziati che dovranno pensare a collaborazioni più solide per ricerche condivise e sinergiche, e per l’Europa che, come sopra ricordato, ancora una volta ha dimostrato di essere miope, guardando ogni Stato al proprio interesse, col risultato di accendere un’istintiva reazione nazionalistico-isolazionista. Proprio l’Europa in cui hanno sede le due più grandi organizzazioni di Sanità Pubblica del mondo l’Oms e l’Ecdc, non è riuscita a prendere una linea unica, come chiudere le frontiere, o armonizzare le regole su come diagnosticare i casi o notificare i decessi. Tra l’altro se l’Europa è la stessa che non vuole applicare misure di sostegno finanziario ai Pesi più in difficoltà vien da dire che non è l’Europa che avevamo immaginato… è stata un’occasione mancata.

Questa agognata globalizzazione ha avuto un peso nella diffusione dell’epidemia diventata ormai pandemia?

La globalizzazione, mantra della finanza, ci ha portato tanti rischi: viaggi incontrollato di persone e merci, deforestazione, allevamenti intesivi, occupazione da parte dell’uomo di nicchie ecologiche finora abitate esclusivamente da pipistrelli o animali selvatici che albergano virus sconosciuti all’uomo che per le alterazioni ambientali prodotte prima o poi si trasmettono a noi… e ancora cambiamenti climatici con il conseguente arrivo di virus portati da vettori che prima non avevamo. L’uomo dovrà fare i conti con tutto questo e imparare la lezione su scala globale.

Cosa consiglierebbe al Suo collega americano il prof. Anthony Fauci? La gestione da Covid-19 negli Stati Uniti potrebbe essere ancora più difficile e portare a conseguenze più disastrose vista la vastità del territorio, la struttura del sistema sanitario e dello Stato che è federale.

Il prof. Fauci è un grande professionista, medico-scienziato. Non mi permetto certo di dare consigli a lui ma esprimerei piuttosto suggerimenti a valenza domestica. Nel Regno Unito, Boris Johnson si avvale di due consulenti di riconosciuto e altissimo valore scientifico, i proff. Vallance e Witty, scientific advisor e chief medical officer, rispettivamente. La cabina del comando è molto gerarchica. Così è anche in America dove oltre al prof. Fauci, il Presidente consulta un esperto di Public Health appartenente, di solito dell’Università di Harvard o di Yale. Vorrei far notare come invece in Italia si sia d’improvviso verificata una proliferazione di virologi e sedicenti tali. Hanno parlato tutti di tutto e del contrario di tutto e la loro voce è stata amplificata dai talk show e dai social, che non sono certo sorgenti di informazione rigorosa e documentata. Si è assistito ad una sorta di isteria comunicativa che ha frastornato la gente in un momento drammatico per il Paese. Dovremmo noi imparare dal sistema britannico o americano che la parola spetta a pochi specialisti investiti di responsabilità e a comunicatori professionisti. Quindi, se proprio mi trovassi nella condizione di consigliare il mio Collega Fauci gli direi semplicemente di prendere come esempio l’Italia per trarne esperienza in positivo. Non considerare quindi Covid-19 come emergenza clinico-assistenziale ma come emergenza di Sanità Pubblica e come grande opportunità di ricerca scientifica. Meno ricoveri, massima adozione di misure per prevenire il contagio, più virologia e scienza di base. Ma sono concetti che Toni Fauci ha ben presente e che in parte ha già illustrato in un editoriale del New England Journal of Medicine, non posso ergermi certo a suo consigliere.

Segnalerei forse l’opportunità di adottare decisioni quanto più possibili omogenee, considerata la struttura federale degli Usa. Importante per gli americani è non imitare quanto accaduto in Germania o in Italia dove si son viste politiche diverse per singoli Lander o Regioni. La sanità, soprattutto nei casi di emergenza pandemica prodotta da un virus che non ha confini geografici, deve avere un controllo, una regia e una gestione univoca.

A proposito dell’Inghilterra, l’immunità di gregge è stata una politica sbagliata e rivista subito. Che ne pensa?

Gli inglesi sono spesso in controtendenza. Sono molto razionali. Non si fanno prendere dall’emozione. Non sono influenzabili dell’imminenza di tornate elettorali e dai condizionamenti politici. Sono ipercritici e pragmatici, figli di una cultura neopositivista che nasce dalla scienza e dalla filosofia naturale da Newton in poi. Hanno alcune tra le più prestigiose Università del mondo. E’ accaduto che gli inglesi, forti dell’esperienza italiana e soprattutto lombarda, hanno capito che non potevano far fronte efficacemente sin da subito a questo Virus perché hanno molto meno posti in terapia intensiva rispetto a noi e perché il loro Nhs non dispone di medici sufficienti a far da filtro territoriale per l’emergenza. Hanno agito dunque in maniera opposta a noi. Hanno preso in considerazione che Covid-19 è gravato di una mortalità pari almeno all’1% basandosi sui dati coreani, hanno calcolato una significativa diffusione del virus nella popolazione (fino al 10%) e ne hanno dedotto che il loro sistema sanitario non era in grado di far fronte all’epidemia. Dunque, hanno dato per scontato che il contagio da coronavirus non si poteva fermare efficacemente. È chiaro che un errore l’hanno fatto perché Boris Johnson, che non è un medico ma un umanista, ha parlato di immunità di gregge. In realtà non abbiamo nessuno studio che possa darci notizie certe sull’immunità, dirci se le persone già contagiate possano essere nuovamente infettate, sulla durata dell’immunità, quanto il virus avrà la capacità di mutare e tornare in forma diversa. L’immunità di gregge si ha quando si utilizza un vaccino e la copertura vaccinale nella popolazione è tale (60%, 80%, 90%, a seconda dell’Ro del virus) da proteggere anche i non vaccinati. Qui l’errore c’è stato ma è stato anche riconosciuto. La cosa giusta fatta da subito dal governo britannico è aver salvaguardato gli anziani mettendoli in quarantena sine die ammettendo che l’ospedalizzazione non era la più consona strategia.



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