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L’unità fa la forza

Nella celebrazione dei 150 anni di Unità nazionale rischia di essere archiviata come anticaglia retorica ogni motivazione etico-politica e lo stesso richiamo alle radici storiche, da Federico II a Dante fino al Risorgimento, impietosamente rivoltato dal dilagante revisionismo. Economia, mercato e territorio sono le parole chiave dell’interpretazione e ogni giudizio si commisura sul dare e avere, senza alcun riguardo a storia e sentimenti, ma senza alcuna attenzione neppure agli scenari internazionali. In tale contesto, la ricorrenza è diventata occasione di resa dei conti sulla convenienza dello stare insieme tra le varie parti del Paese. Complici l’assenza di disegni politici di respiro, lo svuotamento della vita civile d’ogni slancio ideale e la generale insicurezza generatrice di chiusure egoistiche, si va accreditando il convincimento che una parte sana e produttiva sia frenata dalla zavorra costituita da un’altra parte del Paese. Il dibattito si sta così avvitando tra le insofferenze nordiste, spinte alle soglie del secessionismo e le recriminazioni sudiste, nutrite di nostalgie borboniche. Spezzare questa spirale dovrebbe essere impegno comune, in nome della ragione e, per quel che è possibile, della verità. La prima delle quali è che l’Unità ha giovato complessivamente a tutti. Due o tre Italie nell’attuale contesto internazionale non farebbero più ricchi i cittadini di nessuna delle più piccole patrie. Se questo dato fosse assunto da tutti il dibattito si svelenirebbe e si canalizzerebbe utilmente verso l’individuazione di più alti obiettivi comuni, dei fattori frenanti e delle relative responsabilità. Cominciando da quelle della politica che non ha concorso a costruire un forte senso di unità nazionale. Non si può infatti che guardare con tristezza alla retorica patriottarda fascista, che ci ha regalato una guerra civile, ma non si può neppure dimenticare la non neutrale antiretorica delle sinistre, che di fatto ha poi imposto a quelli della mia generazione di cancellare dal vocabolario la parola “patria”.
 
Ma veniamo ai freni. Tutti gli indicatori decretano l’arretratezza del sud e l’accrescimento del divario col nord. Gli ultimi non li traggo dalle citatissime statistiche economiche: un Atlante della letteratura italiana appena uscito presso Einaudi registra la complessiva arretratezza del sud nelle lettere; un rapporto di Cittadinanzattiva documenta la durata doppia dei processi al sud rispetto al nord. Ma ciò che oggi agli occhi del mondo certifica plasticamente il vergognoso degrado del Mezzogiorno e le responsabilità delle sue classi dirigenti sono le immagini dei rifiuti. Va rilevato che la scomparsa di partiti veri ha danneggiato soprattutto il sud esponendo, ancor più che in passato, le sue deboli strutture sociali al dominio della criminalità organizzata e al malgoverno solitario di cacicchi locali. Se non ci si vuole rifugiare, da una parte in tranquillizzanti alibi genetico-razziali, tuttora presenti nella diagnostica sociale, e dall’altra nel disastroso vittimismo meridionale, occorre cimentarsi serenamente nell’individuazione dei modi di uscita dall’empasse.
 
Un certo filone, in questo clima, vuole accreditare l’idea di un Mezzogiorno giunto florido all’appuntamento dell’Unità e poi progressivamente decaduto. È vero che il Regno borbonico, per aver realizzato politiche protezionistiche della sua industria, aveva assicurato buoni risultati, anche sul piano internazionale, a molte sue produzioni. È anche vero che la repentina adozione da parte dello Stato unitario di un regime liberista, accompagnato da ulteriori abbassamenti delle tariffe doganali, portò ad abbattere quelle napoletane dell’80%, con la conseguente messa in liquidazione di gran parte dell’apparato industriale meridionale. La scure calò impietosamente, mandando in fumo tanti capitali investiti nell’industria, disperdendo manodopera di qualità e deprimendo ogni slancio verso gli investimenti industriali. In tale quadro l’agricoltura restò pressoché unica attività produttiva del Mezzogiorno. In essa faticosamente si svilupparono la cerealicultura e la viticoltura, sostenuta dalla domanda francese legata alla crisi della fillossera. Non si erano ancora assestate le conseguenze di tali scelte che, poco dopo, per fronteggiare una crisi internazionale, fu imposta una nuova, repentina inversione di marcia. Nel 1887 si tornò infatti a politiche protezioniste dell’apparato industriale, divenuto ormai quasi esclusivamente settentrionale. Il sud uscì stremato da questi bruschi cambi di marcia, tanto che Sonnino, agli inizi del ‘900, sentì il dovere di dichiarare necessario e doveroso un sostegno straordinario al sud. Fu l’inizio delle legislazioni speciali, generatrici di una sindrome da risarcimento permanente. Ma questi dati e fatti non fotografano la condizione profonda del sud a cavallo dell’Unità. Altri forse la rappresentano in modo più penetrante. Nella seconda metà dell’Ottocento il divario nord-sud in tema di analfabetismo era impressionante, oscillando tra un 9% del Piemonte e un 69% della Sicilia, con una posizione mediana sul 44% della Campania. Fino al 1925, quando è sorta l’Università di Bari, il sud peninsulare aveva una sola università, quella napoletana fondata nel 1224 da Federico II. Solo negli ultimi decenni sono sorte altre università, strutturalmente deboli perché fondate “a costo zero”. Lo Stato unitario intanto si era assunto l’onere del finanziamento delle università. Sarebbe interessante calcolare lungo l’arco dei 150 anni quanto abbiano assorbito rispettivamente il sud e il nord per istruzione e ricerca e girare i dati alle sedi in cui oggi si dibatte di federalismo fiscale. Il “vituperato” Intervento straordinario nel Mezzogiorno, specie nella prima fase, molto ha contribuito a farlo uscire dal Medioevo, cosa che ha giovato all’intero Paese. Distorsioni non ne sono mancate, ma spesso hanno finito per avvantaggiare il nord.
 
Ripetendo cose note, si deve dire: che l’intervento straordinario sempre più negli ultimi tempi è diventato sostitutivo di quello ordinario, assorbito prevalentemente al nord; che buona parte delle stesse risorse straordinarie per il Mezzogiorno di fatto ha finanziato il nord, grazie ad inganni regolamentari e assenza di controlli (ricca e puntuale è la letteratura in tema).
In quest’intreccio di ragioni e torti è comunque innegabile che alla prosperità del nord non è mancato il contributo del sud, come forza lavoro e come area di mercato. Né si può pensare che un’Italia più piccola, anche se più omogeneamente sviluppata, potrebbe continuare ad essere assisa tra le prime sette potenze del mondo. Ed allora ripartiamo dal dato dell’Unità che ha avvantaggiato tutti in varia misura, studiandoci di massimizzarne gli effetti e di diffonderli secondo criteri di responsabilità e conveniente solidarietà. Un federalismo fiscale rigorosamente ancorato a questi inscindibili parametri potrebbe ben suggellare le celebrazioni dell’Unità d’Italia!


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