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Meglio Fortunato (Giustino)

Due anni e mezzo fa in campagna elettorale il Pd aveva provato ad attribuire le immagini di quasi 300mila tonnellate di immondizia in mezzo alla strada alla perfidia delle televisioni berlusconiane. Ma poi il risultato elettorale fu quello che fu. Oggi, di fronte alle immagini di un po’ meno di 10mila tonnellate di immondizia in strada, il Pdl certo farebbe male a indulgere al vittimismo. Ma non per questo si può dimenticare come, in forza dei provvedimenti di un esecutivo ben diverso da quello di Prodi, qualche successo sul fronte dell’emergenza rifiuti in questi anni è stato conseguito. Ed è vile far credere che in Campania e a Napoli, se non tutto il Pdl, gran parte del suo gruppo dirigente, sia emanazione del clan dei Casalesi.
Proprio il capo dello Stato ha definito quella dell’immondizia in Campania una tragedia nazionale. Ma se è diventata tragedia nazionale, e non regionale, è perché lo Stato indietreggiava e il cosiddetto sistema delle autonomie avanzava.
 
Fra la fine del ‘72 e gli inizi del ‘73, nella Napoli del colera, quando Cosentino aveva soltanto 13 anni e Mara Carfagna non c’era ancora, esplose la prima protesta a Pianura contro la discarica di contrada Pisani. Fu varata la legge regionale n. 23 del 19 novembre 1973, che stanziava miliardi per gli inceneritori. Ma quella legge regionale rimase lettera morta. Nacque, invece, il grande business della “trattativa privata” degli appalti fra Comuni e imprenditori.
Col massimo centralismo regionale sugli enti locali si arrivò al commissariamento straordinario di tutto, affidato non già allo Stato na-zionale ma alla Regione. Dominavano la scena le cosiddette “società miste”, figlie delle vecchie aziende municipalizzate, ma assai più spregiudicate e multiformi, delle quali i De Luca e i Bassolino erano raffinati cultori.
Si trattava dei contenitori “democratici” di pezzi di gestione della cosa pubblica destinati a vivere senza controlli e senza trasparenza. La Regione diventava un “Comune in grande”: riserva infinita di occupazione del potere, oasi privilegiata di clientelismi illimitati.
 
Ora, in una stagione politica figlia della vittoria di Berlusconi del 2008, si vorrebbe far apparire Caldoro come quello che rinuncia all’autonomia regionale pur di rimettere in sesto i conti e collaborare con Tremonti. Si tratta di sradicare un regionalismo di potere, che ha eluso ogni regola pubblicistica nelle assunzioni di personale e negli appalti, in favore di una gestione privatistica della cosa pubblica fino ad intrecciare la struttura del potere amministrativo con gli interessi di singole imprese.
Lo scorso settembre, attorno alle celebrazioni del 150esimo dell’Unità d’Italia, i contestatori borbonici hanno diffuso quasi mezzo milione di copie di un volantino, che riproduceva un famoso articolo di Antonio Gramsci su Ordine nuovo del 1920. “Lo stato italiano – vi si legge – è stata una dittatura feroce che ha messo a fuoco e fiamme l´Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio dei briganti”. Di brigantaggio se ne è parlato sempre ed oggi se ne riparla, era un grave problema endemico e storico del Mezzogiorno. Nel 1817 e nel 1821 con dure campagne di guerra il governo borbonico ne attenuò la portata, e in seguito cercò di controllarlo, ma non riuscì mai a eliminarlo.
Divenne per forza di cose l’argomento decisivo per ferire a morte la legittimità dello Stato nazionale.
 
La tradizione dei meridionalisti liberali, da Giustino Fortunato in poi, avrebbe avuto un fortissimo legame con lo Stato unitario. Nel febbraio scorso, Giorgio Napolitano, all’Accademia dei Lincei, ha avuto il coraggio di prendere le distanze dalla storiografia gramsciana a favore degli studi sul Risorgimento e sull’Unità nazionale di Rosario Romeo. Dagli anni ‘50 agli anni ‘80 l’unica difesa efficace, nel merito e nel metodo, del Risorgimento e dell´intera storia nazionale toccò alla storiografia liberale. Fu Romeo a sottolineare nel 1961, in occasione del primo centenario, l’affievolimento dei valori patriottici e l’insistente svalutazione dello Stato unitario liberale, proprio nel momento in cui si raccoglievano i migliori frutti di quanto si era seminato in un secolo di vita unitaria. Quando irruppe sulla scena politica il leghismo, la tenuta difensiva del sentimento unitario era già stata logorata dall’azione corrosiva esercitata da marxisti, radical-democratici, cattolici di sinistra, in misura di gran lunga superiore a quella esercitabile oggi dagli ultimi nostalgici asburgici, borbonici o neo-sanfedisti.
Si spiega così come sulle celebrazioni prossime venture incomba quel tormentone di luoghi comuni antirisorgimentali di varia prove-nienza, per il quale anche nel 2011 Gramsci rischia di essere più attuale di Romeo. Magari arruolando Saviano e sovrapponendo camorra e mafia di oggi al brigantaggio di ieri.
 
La soluzione del decentramento amministrativo, cioè l’attribuire ai corpi locali, più o meno autonomi, vera e propria funzione di Stato, a Fortunato sarebbe sempre parsa lesiva dell’Unità nazionale. Nelle pagine de Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, la questione meridionale faceva tutt’uno con la necessità dell’accentramento politico, condizione irrinunciabile per assicurare il progresso materiale e morale dell’Italia. A suo modo, quella dell’intervento straordinario era un’idea che l’Italia degasperiana avrebbe innestato nel solco del meridionalismo di tradizione fortunatiana e contro quello della tradizione gramsciana.
Per quasi mezzo secolo, nell’Italia repubblicana il meridionalismo di Fortunato era riuscito a convivere con l’autonomismo di Salvemini e Dorso. Poi fu travolto e fu Seconda repubblica.
Al centro del nostro sistema politico stava lo Stato nazionale. Il sistema delle autonomie territoriali era in funzione di tale centralità. E così i partiti politici, pensati e vissuti per concorrere a determinare la “politica nazionale” e con essa la formazione e l’ascesa di una classe dirigente anch’essa nazionale.
Poi tutto cambiò. Con le riforme elettorali degli anni ‘90 (quelle comunali, regionali, provinciali, ben più incisive e profonde di quelle relative al Parlamento), con la legge Bassanini e poi con la riforma del Titolo v della Costitu¬zione, è come se lo Stato nazionale fosse scomparso. Eletti direttamente dai cittadini, legitti¬mati non più dalla politica ma da una sorta di moralismo di massa, i vertici degli esecutivi comunali, provinciali, regionali hanno preteso di essere loro lo Stato. Si sentono “governo”, mortificano ogni parlamentarismo (quello delle Camere e quello delle assemblee territoriali), risuscitano umori di federalismo che risalgono al 1848, quando Cattaneo pensò che Milano dovesse far da sé. Si è insediato una specie di mini-gaullismo del territorio, a margine del quale il Mezzogiorno si trova davanti una strada in salita. Più ancora che nel 1861!


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