Ci fu un tempo in cui il ministro degli Affari interni faceva credere di fermare da solo le navi, chiudere i porti, cancellare gli sbarchi e varare i decreti sulla sicurezza. Era lo stesso tempo in cui Francia e Germania erano additati quali principali nemici dell’Italia, il collega vice presidente del Consiglio si strusciava ai gilet gialli e se ci sconfinferava saremmo anche usciti dall’euro e abbracciato la Cina. Quant’è lontano quel tempo, ovvero appena ieri mattina. Ora l’Europa è la salvezza, l’Occidente la meta, la ragionevolezza un metodo. Ma torniamo ai porti e alla sicurezza.
Dopo che il tribunale dei ministri ha costretto tutti a una strana commedia, sicché un giudice dovrebbe giudicare un reato che l’accusa non considera manco esistente, il solitario sbarratore di banchine s’è ricordato che non è mai stato solo e che a condividere la sua celebrata azione v’era tutto un governo. Verissimo. Sono i porti che non sono mai stati chiusi, ma la pretesa del contrario era acclamata linea condivisa da tutti i colleghi. I quali colleghi, ora, si ritrovano a condividere le responsabilità non più con lui, ma con altri. Mai lo avrebbero voluto, ma lui se ne andò, soli li lasciò e quelli, piuttosto che tornarsene a casa con altri, s’accasarono. Sicché, a fronte di accuse identiche, prima lo sottrassero alla giustizia e poi lo consegnarono, non calcolando di consegnare così sé medesimi al grottesco.
Ora vorrebbero cancellare i “decreti Salvini”. Posto che quelli furono decreti del governo tutto, sicché sono decreti Conte, che li difese strenuamente anche a fronte di più che moderati e ragionevoli rilievi del Quirinale, facendo finta di credere a questa messa in scena, domandiamoci: è giusto o no, cancellare quei decreti del Conte primo?
È inutile. Perché dopo avere ricordato che a prendere le decisioni (momentaneamente) pendenti innanzi a un gup non fu uno solo, all’opposto di quel che lui solo sostenne, ora, innanzi all’accusa di avere smantellato il “sistema dell’accoglienza”, i suoi, giustamente, rammentano di non avere smantellato un bel niente. Semmai chiuso qualche campo incivile, che ci vuol sadismo per rimpiangerlo. Per il resto: se non è zuppa è pan bagnato, giacché i rimpatri sono diminuiti piuttosto che aumentati e il resto è rimasto uguale cambiando denominazione. Quei decreti, insomma, furono declamazione. Reclamarne la cancellazione è declamazione opposta. Un concorso canoro, una gara fra ugole che si esibiscono le une con il cuore e le altre con il fegato in mano. Spettacolo avvincente, ma inconcludente.
Ove volessimo intonare un canto razionale, proprio perché meta continua, ininterrotta, solo talora più intensa e talora meno, di sbarchi, noi per primi dovremmo chiedere che sia responsabilità comune dell’Unione europea: a. identificare e decidere chi ha diritto di restare e chi no; b. curare i rimpatri o, in mancanza, i campi di permanenza; c. gestire i luoghi dove queste persone vengono raccolte dopo l’arrivo. Il che, però, presuppone che: 1. si riconosca che taluni hanno diritto di restare e talaltri c’è convenienza ad averli; 2. che agli altri sia sbarrata la porta d’ingresso e riaperta quella del ritorno; 3. che anziché supporre di risolvere il problema per accrescere la sovranità si capisca che è condividendola che forse lo si affronta. Il che spezza il cuore e avvelena il fegato degli esibizionisti incoerenti.