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Trump e il virus, perché non darlo per spacciato. Parla Sangiuliano

Scacco matto o formidabile assist per la vittoria? In queste ore tutti si chiedono che effetto avrà il contagio da coronavirus del presidente americano Donald Trump, e di una buona parte della Casa Bianca, sulla sfida di novembre contro Joe Biden. La verità è che una risposta esatta non c’è. Per Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, giornalista esperto di Stati Uniti e autore della biografia “Trump, un presidente contro tutti” (Mondadori, in libreria con una versione aggiornata) il colpo di scena può davvero cambiare le sorti della partita all’ultimo miglio.

Direttore, adesso che succede?

Mi sembra ci siano due effetti principali. Da un lato il virus rallenta la campagna elettorale di Trump e soprattutto ostacola la modalità che lui preferisce: il contatto diretto con le persone, le manifestazioni con i suoi sostenitori.

Dall’altro?

Può scattare un’operazione simpatia. Chi finora criticava Trump dicendo “noi siamo esposti al Covid, lui no”, ora dovrà ritrattare. Non escludo che questo intoppo possa produrre un effetto positivo sull’immagine del presidente. In fondo con il premier inglese Boris Johnson è andata così: una volta che ha preso il virus, gran parte del Paese ha fatto quadrato intorno a lui.

Però ci sono anche reazioni opposte. Trump ha a lungo sottovalutato il pericolo del virus.

È vero, ha avuto diversi ondeggiamenti e non ha sempre preso sul serio la gravità della pandemia. Ma non è stato certo l’unico. Gli hanno fatto compagnia tanti altri leader di governo e della comunità scientifica. La Cina è stata la prima, come ha certificato l’Oms. Noi abbiamo avuto qualche esempio in Italia, con schiere di virologi che in tv declassavano il virus a semplice influenza.

Ora il presidente è in quarantena. Quanto pesa l’assenza della “fisicità” sulla campagna di Trump?

Molto. Trump ne ha fatto un punto di forza. Quattro anni fa gli è servita per sbaragliare contro qualsiasi pronostico la concorrenza nel Partito repubblicano. Tutti guardavano a Jeb Bush, Marco Rubio, Ted Cruz. Clamorosamente sconfitti, anche grazie al suo atteggiamento spavaldo. All’epoca perse a San Francisco, Chicago, New York, ma stravinse nell’America profonda, dove il contatto diretto, empatico, fa la differenza.

Quattro anni fa prendeva in giro la Clinton per la sua debolezza fisica. Ora sembra versare in condizioni peggiori…

Sarei cauto, non siamo ancora in grado di conoscere il decorso. Può darsi che, come Silvio Berlusconi, in una settimana ne esca fuori. L’unico vero rischio è rimanere in un limbo di incertezza. Non può permetterselo.

Intanto i sondaggi lo danno in netto svantaggio. Tutti, anche quelli di area repubblicani.

Come ha detto di recente Nicola Piepoli, i sondaggi in America lasciano il tempo che trovano. Parlavano di una vittoria schiacciante della Clinton il giorno prima del voto.

Però per Trump i numeri oggi sono più impietosi del 2016.

Sì, ma non dimentichiamo che il voto presidenziale americano è tutto imperniato sul sistema dei grandi elettori. La Clinton perse prendendo due milioni e mezzo di voti in più al voto popolare. Non ho dubbi che anche Biden possa vincere su quel fronte. Ma non basta.

Rimane una grande incognita: che succede se Trump rifiuta di accettare l’esito delle elezioni?

Un terreno molto scivoloso. Ma non penso si arriverà a tanto. Chi perderà concederà la vittoria all’avversario. Nessuno vuole sulla coscienza una guerra civile.

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