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Perché il Covid-19 è un test per l’Italia. L’analisi di Zecchini

Bisogna investire di più nella prevenzione e cura, piuttosto che nell’assistenzialismo nei periodi di restrizione, con l’obiettivo di riportare in tempi brevi le attività economiche a regime e in sicurezza. L’analisi di Salvatore Zecchini

Se si può trarre qualche certezza dall’esperienza dell’epidemia finora vissuta, una è senza dubbio che il Covid-19 non solo richiede test di rilevamento per frenarne la diffusione, ma è esso stesso un test di quanto non va nel nostro sistema-Paese. Ha riconfermato quello che è evidente da lungo tempo, ovvero che l’Italia è gravemente esposta a molti tipi di emergenza da quella sanitaria alla sismica, idrogeologica, terroristica, criminalità organizzata, e di altro genere, e si scopre sempre poco preparata ad affrontarle. Nel caso attuale, si è come di fronte a una rassegna delle tante inefficienze e vulnerabilità che per decenni hanno afflitto il Paese e a cui è difficile porre rimedio per i molti vincoli esistenti nel sistema stesso. Il confronto con paesi che sono riusciti a contenere l’epidemia tra cui Cina, Singapore, Giappone e Corea, induce anche a riflettere sul se vi sia una debolezza di fondo nel sistema pluralistico di democrazia e di governance del Paese.

Per passare in rassegna i punti deboli evidenziati dall’esperienza attuale è bene iniziare dalla politicizzazione della gestione della crisi pandemica, quanto di peggio si possa avere in tali circostanze. Quale dovrebbe essere l’obiettivo ultimo di una buona governance? Evidentemente, dare priorità alle misure di prevenzione e contenimento del contagio, e di impegno nella messa in campo di vaccini, rispetto alla salvaguardia di alcuni contenuti della libertà individuale, come quello di spostarsi liberamente e di entrare in contatto con altri. Questo ordine di priorità serve anche a tenere in moto l’economia ed evitare che con un’inversione dell’ordine di priorità si finisca col doverla bloccare per lunghi mesi a causa della diffusione incontrollata del virus. In altri termini, prima tempestive, rigorose e strette misure di contenimento per poi poter riportare a pieno ritmo le attività in tempi meno lunghi degli attuali. Invece, si è assistito a continui scontri politici sul tema, a lunghi negoziati sulle misure con compromessi inadeguati alla sfida del virus, a fini bilanciamenti delle restrizioni, all’abbandono in estate di una uscita graduale dalle restrizioni e alla mancanza di un approccio di medio periodo, che servisse ad accompagnare la transizione verso i mesi in cui saranno disponibili un antidoto e una terapia adeguata, e più della metà della popolazione sarà stata vaccinata. L’approccio ha avuto in prevalenza il corto orizzonte di pochi mesi, piuttosto che rappresentare una strategia o un programma per un periodo di 24 mesi, che è quello oggi più probabile per superare la crisi.

Sottostante a questa debolezza è l’insufficiente attenzione alle analisi e agli scenari possibili sul comportamento di simili epidemie. Se i modelli epidemiologici più noti hanno fallito nel prevedere i numeri e i tempi del ciclo epidemico, essi servono tuttavia a comprendere la dinamica e i fattori che influiscono sulla diffusione del virus. Tra questi il comportamento degli individui nel distanziamento, nel portare maschere sanitarie idonee, nell’aggregarsi e nella prevenzione in generale. Spesso l’osservanza di queste restrizioni è stata disattesa perché apparsa come violazione delle libertà individuali per un malinteso senso della democrazia, che vieterebbe ogni costrizione. Vi ha contribuito pure la leggerezza dei comportamenti di quanti hanno sottovalutato per insipienza la pericolosità del virus.

L’eterogeneità dei comportamenti mette in crisi i risultati dei modelli predittivi, ma evidenzia anche alcuni aspetti rilevanti per programmare le misure. Si è visto che il tasso di mortalità è correlato positivamente con le classi di età della popolazione, nel senso che quanto più avanzata è l’età tanto più alto il rischio di letalità. Quindi sarebbero appropriate anche restrizioni differenziate per fasce di soggetti più o meno vulnerabili. Gli esperti sanno bene, inoltre, che nelle epidemie del passato vi è stata sempre una seconda ondata e anche una successiva, e nulla induce a ritenere diversamente per quella in corso. Eppure, non si è vista una programmazione della prevenzione per più trimestri, pur sapendo che dopo il primo lockdown si era ancora lontani dalla soglia di “immunità di gregge”.

Altra debolezza della governance si rinviene nella pluralità dei centri decisionali in un sistema policentrico di autorità. Le decisioni emananti dal centro sono contrastate a livello periferico o messe in discussione, accrescendo l’incertezza in una popolazione già scioccata dalla virulenza del morbo. Il sovrapporsi di più autorità nella competenza a decidere in materia nasce da errori e difetti nel disegno costituzionale con conseguenze di ampia e prolungata portata. Si allungano i tempi delle decisioni, si generano incertezze sulle responsabilità di azioni o di omissioni, si tende ad adottare palliativi o mezze-misure, si ammettono eccezioni inopportune di fronte a gravi pericoli sanitari e si amplia la possibilità di distorsioni, come si è visto in alcune inchieste giudiziarie. In materia di sanità, come di energia, di infrastrutture essenziali per lo sviluppo economico-sociale, di comunicazioni, di protezione ambientale è necessaria una guida unica, avveduta e sicura, e non un frazionamento di poteri, che comporta inefficienze e inadeguatezze.

L’applicazione delle misure di contenimento e prevenzione rappresenta un altro capitolo della debolezza del sistema. Di fronte alla gravità di questa epidemia ci si aspetterebbe misure draconiane di limitazione dei contagi, osservanza da parte di tutti delle cautele a scopo preventivo nel loro stesso interesse a preservare una buona salute e una cooperazione delle imprese, come nei servizi pubblici, nel mettere in opera tutti gli accorgimenti anti-contagi per poter continuare ad operare in relativa sicurezza. La realtà è ben diversa da quella immaginata con la conseguenza di una ripida impennata della diffusione del virus da ottobre scorso. I comportamenti sono apparsi in molti casi di sostanziale noncuranza verso la prevenzione. Le sanzioni sono state modeste e non deterrenti. I controlli sono risultati inadeguati: ad esempio, a Roma, come a Milano, Napoli e Palermo i mezzi pubblici di trasporto erano e continuano a essere affollati e senza distanziamenti interpersonali per l’insufficiente incremento dei servizi. Scene simili nei bar e ristoranti e in certe zone urbane a grande frequenza, in cui si sono viste folle e scarso uso di mascherine. Nelle scuole si sono applicati i distanziamenti, ma si è prestata insufficiente attenzione agli assembramenti agli ingressi e all’uscita. Non è stato infrequente vedere capannelli di studenti fermi a conversare senza alcuna distanza né mascherine, neanche nei giorni di maggiore intensità dei contagi. Sui mezzi di comunicazione di massa si è assistito a interminabili dibattiti sull’epidemia e sul contenimento, ma non a una campagna martellante di raccomandazioni alla popolazione a osservare le misure anti-contagio. È sul piano della cultura sociale che si notano manchevolezze, le cui conseguenze si riversano su quanti si attengono a comportamenti di prevenzione, e ovviamente sulle attività economiche. I controlli e le sanzioni servono a poco se in una società è carente una cultura diffusa sulla necessità di cooperare tutti al massimo per contenere l’epidemia e i suoi effetti devastanti.

Cosa fare quindi allo stato attuale per ottenere miglioramenti senza essere costretti ai lockdown intermittenti che seguono le ondate epidemiche? Indubbiamente la selettività nelle misure di restrizione è necessaria e dovrebbe essere accompagnata su scala nazionale da una disponibilità adeguata di strumenti sanitari di prevenzione e cura, quali disinfettanti, mascherine e attrezzature ospedaliere. Tuttavia, le restrizioni vanno bilanciate con altre misure di natura più ampia e pervasiva. Occorre impegnarsi di più sia nel convincere la popolazione a osservare le buone pratiche di prevenzione, sia nel rendere possibile l’effettivo distanziamento nei trasporti pubblici, e scoraggiare l’affollamento negli esercizi commerciali, nei luoghi di ristoro e in prossimità delle scuole. Va corresponsabilizzata la popolazione con campagne sui media e anche con controlli più estesi e sanzioni più efficaci. Anche le imprese devono essere indotte a cooperare nella prevenzione attraverso una riorganizzazione dei processi produttivi che riduca le possibilità di contagio. È essenziale fare di tutto per limitare al massimo le discontinuità nelle attività produttive causate dalle restrizioni, e tanto è realizzabile seguendo rigorosi protocolli di prevenzione. La tutela della salute pubblica deve avere la precedenza sulla protezione di alcune libertà e sulla privacy. Il fallimento dell’app Immuni, la cui funzionalità è legata all’iniziativa individuale di registrazione dei casi di positività, insegna che non basta la tecnologia se il sistema è strutturalmente distorto.

In definitiva, bisogna investire di più nella prevenzione e cura, piuttosto che nell’assistenzialismo nei periodi di restrizione, con l’obiettivo di riportare in tempi brevi le attività economiche a regime e in sicurezza. In parallelo, è evidente che urge avviare un processo di revisione dell’assetto costituzionale per dare al Paese una governance coesa, accentrata dove necessario, snella nei meccanismi decisionali ed efficace nell’attuare i provvedimenti necessari.



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