Vale la pena salutare l’incarico di vertice di Harris, sperando che funzioni come catalizzatore di una maggiore e migliore presenza di donne nella politica mondiale e non si limiti ad essere un’eccezione o una curiosità. L’analisi di Maria Cristina Antonucci
Kamala Harris è la prima donna vice presidente eletta degli Usa. Nel corso dei duecento trentuno anni di elezioni del presidente della più glorificata democrazia mondiale, due donne avevano corso per l’incarico di “VP”: la democratica Geraldine Ferraro nel 1984, con il candidato presidente Walter Mondale, e la repubblicana Sarah Palin nel 2008, in ticket con la candidatura di John Mc Cain. Hillary Clinton nel 2016 aveva corso per il Partito Democratico come prima candidata donna presidente, sconfitta al voto da Donald Trump.
È la prima volta, dunque di una VP alla Casa Bianca: con il primo “second gentleman” Douglas Emhoff, di professione legale, al suo fianco, Harris assumerà alla Casa Bianca il ruolo di n. 2 di Joe Biden. Ad un primo sguardo, ci sarebbe da gioire per la causa femminile, finalmente in grado di ottenere – e non solo rivendicare – un ruolo alla pari degli uomini in una delle massime cariche politiche al mondo. In realtà Harris è quasi una predestinata al ruolo, molto più di Hillary Clinton (che ha avuto difficoltà di transizione, nell’immaginario collettivo, nel passaggio da first lady a candidata presidente, anche dopo aver guidato la diplomazia statunitense nel primo mandato di Obama).
Figlia di una famiglia agiata (padre professore di economia, madre oncologa), eccellenti studi universitari, Harris è passata con successo attraverso la più politica delle esperienze: procuratore distrettuale prima a San Francisco (dal 2003 al 2010), poi in California (dal 2011 al 2016). Transitata dopo tale lunga e formativa esperienza nel sistema del diritto con implicazioni molto significative sul funzionamento politico, Harris passa alla carriera propriamente politica, diventando prima senatrice della California nel 2017, poi presentando la propria candidatura per le presidenziali nel Partito Democratico. Dopo la nomination di Joe Biden, Harris, pur molto critica durante la sua campagna con il Presidente nominato, viene chiamata in ticket per la vice presidenza, sicuramente per la sua figura politica, più a sinistra rispetto alle posizioni di Biden, e molto probabilmente per l’appeal di una figura molto aspirazionale e assai Instagrammabile.
L’enfasi sulla doppia appartenenza a minoranze (di genere, etnica, per recuperare segmenti di voto non particolarmente coinvolti dall’offerta politica di Biden), il ruolo di “tosta”, sperimentato nella carriera come procuratore distrettuale ed esibito anche con scelte stilistiche durante la campagna elettorale (leggendarie la scioltissime discese dall’aereo in sneakers o scarponcini, a voler rimarcare la circostanza che una donna che lavora deve essere “comfortable” per essere efficace), Harris è quindi una donna straordinariamente abile nella valorizzazione delle proprie risorse politiche, culturali, comunicative.
Al netto della circostanza che il ruolo di vice presidente è probabilmente ancora meno significativo di come esso è stato magistralmente descritto nella serie satirica Veep (in cui, casualmente, la vice presidente alle prese con l’esclusione dal vero potere era proprio una donna, l’iconica Selina Meyer interpretata da Julia Louis-Dreyfus), la circostanza che per il ruolo sia stata cooptata una donna non ci dice molto sull’avanzamento della condizione femminile in politica. Le vere pari opportunità per le donne in politica non si realizzano quando una persona con un curriculum particolarmente qualificato e vocato alla politica, come quello di Harris, accede a ruoli di vertice – peraltro per cooptazione da parte di un uomo – ma quando tale sfera di opportunità si allarga anche a donne “normali” tanto quanto lo sono, spesso, i vertici maschili della politica.
Il successo di Harris negli Usa (come di Ursula von der Leyen nella Ue e di Christine Lagarde al Fmi prima e alla Bce ora) non deve dunque farci dimenticare l’esigenza di porre più donne, anche non altrettanto “eccezionali” nella condizione di impegnarsi in politica, superando lo sperimentato senso di esclusione da una dimensione intesa come campo di attività prevalentemente maschile a livello globale. La partecipazione politica delle donne si traduce in vantaggi tangibili per la democrazia, inclusa una maggiore reattività ai bisogni dei cittadini, una maggiore cooperazione tra le linee di partito e uno sguardo più attento verso lo sviluppo di un futuro più sostenibile.
Oltre a far avanzare l’uguaglianza di genere, una maggiore presenza di donne in politica influisce sia sulla gamma di questioni politiche che vengono prese in considerazione sia sui tipi di soluzioni che vengono proposte. Maggiore è il numero di donne vengono elette in incarichi politici migliore è processo decisionale che enfatizza la qualità della vita e riflette le priorità delle famiglie, delle donne e delle minoranze nella società. Vale quindi la pena salutare l’incarico di vertice di Harris, sperando che esso funzioni come catalizzatore di una maggiore e migliore presenza di donne nella politica mondiale e non si limiti ad essere un’eccezione o una curiosità.