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Analisi di un esercito in fieri

Parlare di difesa comune oggi in Europa sembra quanto mai bizzarro, se si pensa alle recenti vicende legate alla crisi della moneta unica e del debito greco. Ancora una volta è emerso nel Vecchio continente quello spirito sciovinistico che ne ha caratterizzato la storia recente e passata. L’Europa odierna è molto diversa rispetto a quella immaginata dai padri fondatori delle comunità che nacquero all’indomani del più devastante conflitto che il continente abbia mai vissuto. Nonostante i progressi comunitari compiuti in ambito economico e commerciale, siamo ancora ben lontani dall’aver conseguito, sul piano dell’integrazione politica e di difesa, i risultati sperati. Le conseguenze di questo fallimento sono evidenti. L’Europa resta un gigante economico (qualcuno in realtà potrebbe pensare solo burocratico), ma un attore trascurabile sulla scena internazionale.
 
Il primo abbozzo di progetto inerente un’integrazione militare europea risale già nel 1950, quando il primo ministro francese di allora René Pleven, sostenuto da Alcide De Gasperi, formulò un piano di Comunità europea di difesa (Ced) poi destinato al fallimento. È solo con il Trattato di Lisbona che viene finalmente definito il ruolo dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il quale oggi assume il compito di guida della politica europea di sicurezza e difesa comune (acronimo Pesd) ed è a capo dell’Agenzia europea per la difesa (Eda).
 
Ma di fatto, esiste davvero una politica comune di sicurezza, di difesa e militare dell’Ue? Attualmente, se sembra improbabile la minaccia di attacco da parte di una grande potenza esterna, è sempre più evidente la necessità di sapere fronteggiare guerre asimmetriche: contro eserciti non regolari, insurrezioni politiche, guerre civili, organizzazioni malavitose transnazionali, pirateria marittima, terrorismo internazionale, cyberguerre, attacchi informatici, e per affrontare tutte queste sfide è evidente come appaia un percorso obbligatorio quello dell’integrazione via via più stretta tra le diverse Forze armate europee.
 
Benché non esistano delle vere e proprie Forze armate dell’Unione, esiste un certo numero di iniziative già da tempo avviate nell’ambito della difesa europea, nonostante che l’attuale politica difensiva della Ue sia sempre affidata ad ogni singolo Stato membro. Nella versione consolidata del Trattato dell’Unione europea, così come modificato a Lisbona il 13 dicembre 2007, però, all’art. 42 (comma 7) si impone agli aderenti di intervenire con tutti i loro mezzi qualora uno o più Stati membri vengano attaccati da entità extra Ue.
 
Anche la crisi economica che attanaglia l’Europa dal 2008 ha imposto ai governi del Vecchio continente l’avvio di una seconda drastica diminuzione dei bilanci dedicati alla difesa, dopo i tagli post-Guerra fredda, e l’avvio per alcuni Stati membri di programmi d’integrazione volti alla migliore efficienza dei propri strumenti militari. I primi a lanciare l’idea di risparmio attraverso la cooperazione sono stati francesi e britannici. Il 2 novembre 2010, Sarkozy e Cameron firmavano una serie di accordi militari di portata storica, che riguardavano persino il settore nucleare, considerato cruciale dal punto di vista della sicurezza nazionale. Altro esempio è dato dall’accordo di Torino Italia-Francia siglato nel 2001, per cui i due Paesi avrebbero integrato i nascenti sistemi satellitari nazionali (messi in orbita tra il 2007 ed il 2010), ad uso militare e oggi pienamente operativi, integrando l’italiano “Cosmo-skymed” e il transalpino “Pleiades” che sarebbero andati a costituire la costellazione di satelliti Orfeo.
 
I Paesi europei oggi, agiscono a livello internazionale, per quanto riguarda la difesa, sotto due entità distinte: la Ue e la Nato. Il Trattato nordatlantico, comunque, come d’altronde indicato dallo stesso Trattato di Lisbona all’art.42, “… resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa”. Se la Ue dalla missione Althea in Bosnia in poi si è mostrata via via sempre più attiva, tramite i propri organismi militari comuni, nelle operazioni di peace building, rimane però sempre l’Organizzazione atlantica, l’organismo di intervento militare al quale i Paesi europei si affidano in caso di gravi crisi internazionali, vedi il caso Kosovo, Afghanistan o Libia.
 
L’Eurocorpo, creato dopo il vertice franco-tedesco di La Rochelle del 1992, è oggi la struttura militare europea più importante. Esso potenzialmente potrebbe contare su 60mila uomini provenienti, oltre che da Francia e Germania (Brigata franco-tedesca), anche da Belgio, Spagna e Lussemburgo, mentre Austria, Grecia, Italia, Polonia, Romania, Turchia e Stati Uniti partecipano formalmente nello Stato maggiore. Tutti i Paesi dell’Ue, invece, partecipano a singole missioni di pace sotto l’acronimo Eurofor, come per le missioni in Macedonia, Bosnia Erzegovina e Ciad. Vi sono infine gli Eu battlegroup (Bg), cioè delle piccole unità multinazionali europee di teatro e di pronto impiego, attualmente 19, come la European operational rapid force (Eurofor), una forza multinazionale europea ad intervento rapido composta da reparti di Francia, Italia, Spagna e Portogallo.
 
Benché quindi in Europa si stia da qualche anno percorrendo (molto piano) la strada dell’integrazione delle singole Forze armate nazionali, per esigenze volte al risparmio, l’efficienza e l’impiego rapido in scenari
peace building, l’Alleanza atlantica rappresenta sempre il pilastro reale della difesa in Europa e l’unico mezzo di intervento bellico esterno di essa, ma visto che il più importante membro Nato sono gli Usa, siamo sicuri che tale dato di fatto rappresenti la soluzione ideale se si vorrà, un giorno, veramente costruire degli Stati Uniti d’Europa?


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