“L’Etiopia è uno di quei Paesi too big to fail, e tale spero sia la consapevolezza dei player internazionali”, sostiene il viceministro degli Esteri Emanuela Del Re, che ha delineato a Formiche.net gli scenari di attenzione regionali e gli interessi di Roma anche come promotore di stabilizzazione
La crisi etiope rischia di essere un moltiplicatore di instabilità in una regione sensibile, ambito geopolitico in cui si muovono gli interessi di grandi e medie potenze. Un’area strategica, quella del Corno d’Africa, anche per l’Italia: per tale ragione Formiche.net sta dando molta attenzione nell’analizzare quanto sta accadendo attraverso voci altamente autorevoli come quella della viceministra degli Esteri, Emanuela Del Re, che ha delineato gli scenari di attenzione regionali e gli interessi di Roma anche come promotore di stabilizzazione.
Due anni fa l’Italia giocava la sua parte nell’intesa storica tra Eritrea ed Etiopia. Ora ci troviamo con Addis Abeba che rischia di piombare in una guerra civile. C’è un ruolo con cui Roma può far qualcosa per facilitare una de-escalation?
L’Italia ha sostenuto con convinzione il riavvicinamento tra Etiopia e Eritrea culminato nella firma dell’Accordo di Pace del 2018, che ha consentito l’uscita da un conflitto ultra decennale, nella piena consapevolezza del suo valore politico per la prospettiva di partenariato tra i due Paesi, nonché della sua valenza paradigmatica per l’intera regione del Corno d’Africa quale modello di “soluzione africana a problemi africani”. Abbiamo da subito riconosciuto la spinta riformatrice che lo stesso premier etiope Abiy Ahmed aveva portato in quel momento storico. Infatti in Etiopia nel 2018 si recò il premier Conte e io stessa tra il 2018 e il 2019 ho visitato il Paese più volte.
Quale era la situazione attorno all’intesa?
Eravamo già allora ben consapevoli della complessità del contesto politico etiopico, caratterizzato da una acuta frammentazione del suo mix etnico e comunitario, che faceva da contorno a quell’accordo storico. Non è un segreto che il percorso di riconciliazione tra Abiy e Afeworki fosse percepito con sospetto dalla comunità tigrina ed è stato letto da alcuni in Tigray come la materializzazione di una duplice minaccia combinata: da un lato il governo federale etiope e dall’altra il regime eritreo.
Ricorda la sua esperienza diretta?
Nel mio incontro con il premier Abiy nel giugno 2019, fui da lui invitata a visitare il Tigray e in particolare il sito archeologico di Aksum dove per anni abbiamo sostenuto progetti di aiuto nel settore archeologico e turistico, proprio perché l’attenzione del governo etiopico allo sviluppo economico della regione in quel momento era molto alta, e favorire la visita di un paese straniero aveva un’alta valenza simbolica. Non a caso la mia visita ad Aksum ebbe molto risalto mediatico sulla stampa del Paese. Due giorni dopo, il 22 giugno, vi fu il cosiddetto tentativo di colpo di Stato nello Stato di Amhara. Ricordo il dr. Abiy parlare alla nazione in televisione con indosso la divisa militare. Le sfide interne al paese apparivano già molto serie.
Un anno e mezzo dopo ci troviamo di fronte a un conflitto nel Tigray. Che contesto abbiamo davanti?
Sin dall’inizio il governo italiano ha adottato un approccio bilanciato sia nella ricostruzione dell’attuale crisi sia nella conduzione dei rapporti con i diversi interlocutori africani ed internazionali. Il presidente del Consiglio Conte ha avuto un lungo colloquio con il primo ministro etiopico ,e io stessa ho interloquito con il ministro degli Esteri del Sudan, Paese fra i più esposti al potenziale spillover della crisi. Va detto che il rapporto tra le leadership dei paesi della regione è costante, anche perché gli interessi sono comuni per quanto riguarda gli assi di collegamento, le questioni sociali e ambientali e altro. Abbiamo tutto l’interesse a rafforzare e ad accompagnare lo sviluppo del dialogo e della cooperazione tra queste leadership.
La crisi etiope tocca un ambito geopolitico delicatissimo. Il Corno d’Africa, un contesto dove l’instabilità si somma al valore talassocratico di quel lineamento geografico. Qual è il rischio dell’espansione di questo conflitto a livello regionale?
Non possiamo ignorare gli enormi rischi di un’espansione del conflitto a livello regionale, anche se il conflitto in Etiopia di per sé è già motivo di grande preoccupazione. Un conflitto in un Paese di 110 milioni di abitanti, con una delle economie che ha avuto una delle più rapide crescite nel continente africano fino allo scoppio della pandemia, non può non avere ripercussioni anche sulla regione. Non possiamo neppure ignorare che i Paesi del Corno sono tutti in allerta. L’Eritrea condivide un lungo confine proprio con il Tigray. La Somalia ha motivo di preoccuparsi tra le altre cose perché conta sulla collaborazione dell’Etiopia nella lotta contro Al-Shabab. È tutto interconnesso.
Da giorni arrivano notizie di atrocità compiute in varie aree, un potenziale aggravante, con una questione umanitaria che sembra già aperta…
Dovranno essere adeguatamente investigate — chiunque ne sia responsabile — non solo per un’elementare considerazione di giustizia ma anche per scongiurare rappresaglie e nuovi massacri. Quel che è certo è che la crisi sta inoltre generando un grave impatto umanitario sui Paesi confinanti con l’Etiopia, a partire dal Sudan. Non dimentichiamo che secondo le Nazioni Unite ci sono già centinaia di migliaia di persone che hanno difficoltà di accesso al cibo in questo momento, e ai servizi di base. Secondo le ultime notizie, circa 25mila rifugiati avrebbero varcato i confini verso il Sudan. Noi siamo sempre pronti a sostenere i gruppi vulnerabili, e per questo ho a tal riguardo disposto un aiuto d’urgenza al governo di Khartoum per il tramite dell’Unhcr.
Tutto, dicevamo, in un contesto particolare: quali sono in effetti le sensibilità della regione?
Il mondo non si può permettere un ulteriore deterioramento dello scenario regionale del Corno d’Africa già caratterizzato da numerose e gravi minacce trasversali. Tra queste cito – senza essere esaustiva — il rischio di infiltrazioni del terrorismo di stampo jihadista, la pirateria al largo delle coste somale, lo sviluppo di traffici illeciti di ogni genere, le gravissime crisi umanitarie le cui cause sono molteplici, dalle inondazioni e invasioni di locuste all’emergenza pandemica e oltre. È un momento molto delicato. La comunità internazionale deve mantenere un approccio pragmatico e costruttivo e tenere aperti tutti i canali di comunicazione per evitare un’ulteriore escalation. Dobbiamo scongiurare quanto più possibile la regionalizzazione del conflitto, e il coinvolgimento diretto ed esplicito di stati confinanti, che potrebbe generare reazioni e contro-reazioni.
C’è la possibilità che l’aumento dell’interesse di grandi potenze come Cina, Russia, Stati Uniti, e di entità minori tra cui l’Italia, la Francia, gli Emirati, il Giappone, possa aver sensibilizzato la situazione?
Come ho indicato nella premessa, le radici del conflitto nel Tigray sono interne, sono parte della storia dell’Etiopia — che noi italiani peraltro ben conosciamo — e potranno trovare una soluzione durevole solo attraverso un autentico processo nazionale di riconciliazione, apertura democratica e dialogo che includa pienamente tutte le componenti nazionali del Paese inclusa quella tigrina, tenendo conto delle loro istanze, in un contesto esacerbato dalle mancate attese di uno sviluppo economico del Paese, malgrado l’adozione di alcune positive riforme da parte di Abiy. Anche in questo caso la definitiva soluzione a questo problema africano non potrà che giungere dall’Africa.
Qual è la chiave della co-esistenza e della cooperazione?
La risoluzione del conflitto nel Tigray ha un’importanza fondamentale anche dal punto di vista della configurazione stessa dello Stato come Stato-nazione, perché in un contesto federale come l’Etiopia, il rapporto tra governo centrale e regioni è un elemento essenziale per la tenuta dell’assetto istituzionale. Sul piano geostrategico l’Etiopia costituisce il perno della sicurezza nel Corno d’Africa. La sua stabilità e integrità territoriale sono un interesse strategico prioritario per l’Italia e per l’Europa.
L’ultima cosa di cui la sicurezza e la stabilità del mondo hanno bisogno è che qualche attore esterno pensi di soffiare sul fuoco della conflagrazione in atto, considerando l’Etiopia alla stregua dell’ennesimo terreno dove si svolge lo scontro a somma zero contro i propri nemici. L’Etiopia è uno di quei Paesi too big to fail, e tale spero sia la consapevolezza dei player internazionali.