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In Italia la correzione di rotta

L’audizione del ministro Giampaolo Di Paola alle commissioni Difesa di Camera e Senato (1° e 14 dicembre 2011) ha posto nuovamente in risalto la necessità di una riconfigurazione complessiva delle Forze armate italiane.
Il profilarsi di tale prospettiva ha alimentato un acceso dibattito circa i possibili tagli al comparto difesa, l’eliminazione di sprechi e duplicazioni, e il futuro delle missioni oltre confine. Contraddistinta da un inedito grado di attenzione mediatica, la discussione si è svolta più attorno ad esigenze di rimodulazione della spesa (eventuale revisione di onerosi programmi di armamento, dismissione del patrimonio immobiliare) che all’opportunità di un generale ripensamento strategico.
 
A fronte di scenari internazionali in rapido mutamento, testimoniati fra l’altro dall’adozione della nuova Defense strategic guidance del Pentagono (gennaio 2012), sarebbe invece auspicabile che la discussione fosse accompagnata da una riflessione di profondità strategica, fondata sull’analisi del lungo processo di evoluzione della nostra politica di difesa nell’era post-bipolare. Il dibattito odierno ha il merito di diradare la nebbia che si è accumulata su temi di straordinaria rilevanza per il Paese. Nelle prese di posizione che sono andate susseguendosi permane tuttavia il segno della strumentalità e della superficialità che spesso accompagnano la riflessione nazionale in materia di difesa.
 
A ben guardare, l’analisi delle decisioni parlamentari adottate degli ultimi due decenni mostra l’emergere di un sostanziale consenso bipartisan attorno alle principali scelte politiche, a partire dall’impiego delle Forze armate in numerose operazioni oltre confine. In questo quadro che vede lo strumento militare come asset centrale nella proiezione esterna, il tassello che manca al processo di trasformazione della politica di difesa italiana è una cultura strategica condivisa. Per cultura strategica si intende un linguaggio comune, che vada oltre le contingenze domestiche e le polemiche del momento, e che permetta di affrontare anche da prospettive teoriche e politiche diverse i temi della difesa. In altri termini, una lente interpretativa per le principali sfide del contesto strategico contemporaneo che consentirebbe di andare oltre i limiti evidenziatisi attorno alla retorica, ormai esausta, delle missioni di pace.
 
Osservando i principali dilemmi della difesa italiana, è dunque possibile comprendere la necessità di sviluppare una cultura strategica nazionale che accompagni e definisca adeguatamente il processo di riconfigurazione dello strumento militare. Il maggiore problema evidenziato dal ministro Di Paola è l’insostenibilità delle strutture odierne: secondo i dati forniti dal titolare del dicastero, il 70,5% delle risorse destinate alla funzione difesa sono riservate al personale. Si tratta di uno squilibrio non più sostenibile, che fotografa una struttura di 180mila unità, caratterizzata da un’età anagrafica avanzata e da un numero di comandanti superiore a quello dei comandati. L’Italia dispone dunque di uno strumento militare dalla doppia anima: quella operativa (proiettabile nelle missioni) e quella “stanziale”, preponderante rispetto alla prima.
 
A fronte dello scenario sopra descritto, il ministro della Difesa ritiene “ineludibile” non solo la riduzione del personale, ma anche la revisione dei programmi d’armamento. Proprio di questo tema, e in particolare del dibattito sulla spesa per gli F-35, si è alimentata la riflessione corrente, soprattutto in seguito al rapporto elaborato dal dipartimento della Difesa statunitense che ha evidenziato problemi di progettazione tuttora irrisolti. La discussione odierna tradisce la debolezza della cultura strategica sottostante nel momento stesso in cui pare evitare le domande più importanti che si pongono davanti alle stringenti esigenze di riconfigurazione delle forze. Come rispondere in maniera efficace alle nuove esigenze strategiche? Che ruolo intende giocare l’Italia (secondo le stime più recenti del Sipri, il decimo Paese per spese militari al mondo) nel mutato scenario geopolitico globale? In quale misura saranno seguiti i tradizionali riferimenti europei e atlantici? In qual grado permarrà l’ambizione ad agire come peacekeeper internazionale? Se, come ha evidenziato anche il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, l’Italia è “una realtà globale, con interessi globali”, le Forze armate saranno impiegabili ovunque? Quali le aree di intervento prioritarie?
 
Discutere delle risposte a queste domande appare essenziale per orientare le scelte future rispetto allo strumento militare. La definizione del ruolo che l’Italia intenderà giocare nello scacchiere regionale e globale è la premessa necessaria per impostare un adeguato apparato militare. Una maggiore esplicitazione degli interessi nazionali nel contesto degli impegni internazionali permetterebbe di identificare i mezzi necessari per perseguirli. Un’analisi di prospettiva relativa alla futura tipologia di conflitti e minacce agevolerebbe l’individuazione degli strumenti più efficaci ed efficienti da adottare (armamenti compresi).
 
Più di tutto, un’aperta e condivisa riflessione strategica nazionale consentirebbe di assicurare maggiore trasparenza rispetto ai temi della difesa, secondo gli standard propri di un ordinamento costituzionalmente ancorato a principi liberal-democratici e di tutela sociale. È un fatto che le notizie relative alle missioni militari condotte dalle Forze italiane non attraversano la sfera pubblica. Il black out informativo che ha segnato l’intervento in Libia è proseguito sul fronte afgano, dove i soldati italiani hanno subito negli ultimi mesi decine di attacchi.
 
Come sottolineato dal ministro Di Paola, le sfide a venire per la difesa italiana sono considerevoli. La promozione di un serio e trasparente dibattito sulla cultura strategica nazionale, che coinvolga opinione pubblica e attori politici, appare la premessa fondamentale per poterle affrontare adeguatamente.


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