Riccardo Cristiano ha letto per Formiche.net “Anticipare il futuro della Cina. Ritratto di Mons. Aloysius Jin Luxian s.i.”, edito da Ancora, e curato dal direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, con un’importante prefazione del cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Il volume esce proprio nelle ore dell’ordinanzione del terzo vescovo cinese in base all’accordo Cina- Santa Sede
Sono tanti i giganti nascosti nelle pieghe della storia della Chiesa cattolica, uno di questi è certamente mons. Aloysius Jin Luxian, che chiameremo padre Jin. Parlare di lui, della sua storia, è comunque importante, ma lo è ancor di più oggi che la questione della Chiesa cattolica in Cina è all’attenzione del mondo, per tanti motivi, soprattutto per le polemiche sull’accordo provvisorio tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei vescovi. Ma per capirne appieno la statura occorre inquadrarlo nel suo contesto, quello cinese, tenendo a mente alcuni sviluppi storici decisivi e poi conoscerlo, direttamente. È quello che oggi possiamo fare grazie alla pubblicazione per i tipi di Ancora del volume “Anticipare il futuro della Cina. Ritratto di
Mons. Aloysius Jin Luxian s.i.”, curato dal direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, e arricchito da un’importante prefazione del cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, Prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli.
È importante partire dagli snodi storici che servono a definire l’opera di questo gigante poco noto, ed è quello che ci aiutano a fare l’introduzione di padre Spadaro e il saggio di padre Stephan Rothlin s.i. Ma è bene prima di procedere avere almeno un’idea di chi sia stato padre Jin e per farlo è sufficiente questo passo della nota sulla sua morte pubblicata dalla segreteria di Stato vaticana sull’Osservatore Romano del 1 maggio 2013: “Il reverendo Jin Luxian fu arrestato la notte dell’8 settembre 1955 e sottoposto a lunghi interrogatori, che si conclusero con un processo nel 1960: egli fu condannato a diciotto anni di prigione, più nove di rieducazione. Dal 1963 al 1967 fu detenuto nella prigione di Qincheng (Pechino), dove, a motivo della sua notevole conoscenza delle lingue straniere, fu inserito in un gruppo di detenuti traduttori, che lavoravano a favore dello Stato. Nel 1967 fu trasferito nel centro rieducativo di Fushun e nel 1973 in quello di Qincheng, dove rimase fino al 1975. Fu poi inviato in un campo di lavoro nello Henan e nuovamente imprigionato dal 1979 al 1982: venne rilasciato dopo ventisette anni di detenzione.
Nel 1982 gli fu concesso di riaprire il seminario a Sheshan. Nel 1985 il reverendo Jin Luxian accettò di essere consacrato vescovo per la diocesi di Shanghai, ma senza approvazione pontificia. Approvazione che ottenne una quindicina d’anni dopo, divenendo vescovo coadiutore di Shanghai, dopo aver manifestato la sua fedeltà al Papa e aver chiesto perdono per la sua ordinazione illegittima”. È evidente che i nostri schemi semplificatosi non bastano, anzi, rendono più difficile la comprensione del complesso. E allora prima di parlare di lui parliamo di cattolicesimo e Cina.
Nella sua introduzione padre Spadaro la ricostruisce dall’inizio, che risale al VII: “Il nestorianesimo riapparve nel periodo mongolo nel XIII secolo, ed entrò in crisi in Cina nella prima metà del XIV secolo. Il vescovo francescano Giovanni da Montecorvino iniziò la sua missione evangelizzatrice tra i mongoli a Pechino, che però cessò dopo la fine della dinastia mongola Yuan, nel 1368. L’arrivo dei primi missionari gesuiti avvenne nel 1582, durante la dinastia Ming: Matteo Ricci e i suoi compagni operarono fino all’inizio della dinastia Qing (1644), prima della controversia dei riti, che portò l’Imperatore cinese a bandire il cristianesimo per un centinaio d’anni. In quel periodo i cattolici godettero di un elevato apprezzamento sociale e di grande rispetto da parte della maggioranza della società cinese, inclusi funzionari governativi, membri della famiglia reale e studiosi. Il numero dei cattolici crebbe.
Se andiamo direttamente al tempo moderno dobbiamo ricordare che in seguito alla prima guerra dell’oppio (1839-1842), nel quadro della debolezza dell’Impero cinese e dell’affermarsi delle potenze occidentali in Cina con i “trattati ineguali”, si stabilisce il protettorato francese sulle missioni della Chiesa cattolica, riferito sia ai cattolici stranieri sia anche a quelli autoctoni. Il legame dei cattolici con la Francia rafforza l’idea del cristianesimo come religione straniera e attira verso i cristiani l’odio xenofobo, che esploderà in modo tragico nella rivoluzione dei Boxer nel 1900-1901: circa 30.000 cattolici furono trucidati”. Siamo ancora lontani dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese, ma emerge già un nodo fondamentale: i cristiani sono fedeli alla Patria o sono strumento delle potenze occidentali?
Seguono anni di disgelo, arrivano il primo delegato apostolico e poi il primo cardinale cinese. Poi “nel 1946 viene anche creata la gerarchia episcopale in Cina, la cui struttura è quella tuttora indicata nell’Annuario Pontificio: 20 arcidiocesi, 85 diocesi, 34 prefetture apostoliche”. Nel 1949 arriva al potere Mao. “Nel gennaio del 1951 viene costituito l’Ufficio affari religiosi. I missionari cattolici stranieri verranno espulsi nella prima metà degli anni Cinquanta. Nel 1957 si ha la fondazione dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi. Fra la fine del 1957 e l’inizio del 1958 hanno luogo le prime ordinazioni episcopali senza mandato pontificio. Nel 1966 Mao Zedong avvia la Rivoluzione culturale. Ciò significherà la proibizione di ogni attività religiosa, la chiusura di tutti i luoghi di culto, il divieto di pratica religiosa. Ne saranno duramente colpiti anche gli aderenti alle Associazioni patriottiche”.
Dunque abbiamo due fasi: cattolicesimo senza missionari stranieri e poi proibizione di ogni attività religiosa. Ma la rivoluzione culturale, che voleva sradicare la fede, fallisce, pur lasciando dietro di sé macerie. Deng apre un’epoca nuova, segnata dall’incidente delle beatificazioni dei martiri cinesi nel giorno della Festa Nazionale della Repubblica Popolare e quindi la decisione di Giovanni Paolo II di chiedere scusarsi per alcuni errori ed esprimere l’auspicio di un dialogo con il governo di Pechino, come detto ufficialmente nel IV centenario dell’arrivo a Pechino di Matteo Ricci. È cominciata allora la storia del dialogo in atto che ha avuto con Benedetto XVI una forte conferma ed è arrivata all’accordo provvisorio con Francesco. Dunque la storia dei cattolici cinesi in questa fase di avvicinamento a una nuova chiarezza qual è stata? C’erano due chiese? Un’associazione patriottica di “yesmen” e una Chiesa di “veri fedeli”? Osserva padre Spadaro: “Consideriamo che per decenni i vescovi furono eletti localmente in tutto il Paese nelle chiese attive con l’approvazione del governo. In molti casi, non erano candidati all’episcopato approvati da Roma. Ricordiamo che il processo di legittimazione fu avviato da san Giovanni Paolo II e ha riguardato una quarantina di vescovi dal 2000 a oggi. Come vescovi nominati in modo irregolare e spesso ordinati da altri vescovi che erano stati nominati allo stesso modo senza l’approvazione del Vaticano, essi erano, formalmente parlando, automaticamente scomunicati. Ma più tardi furono raggiunti degli accordi tra questi vescovi e Roma. Non è mai stato sollevato alcun grosso problema, e questi vescovi e la Santa Sede hanno raggiunto soluzioni per riconoscere le nomine e andare avanti con la ricostruzione delle diocesi e della vita della Chiesa”.
Basta questo per farsi l’idea che la storia storia difficilmente può essere capita senza vedere i grigi. E allora lui, Aloysius Jin Luxian, diventa un testimone importante per capire meglio, “perché – scrive Spadaro – ci aiuta a comprendere meglio il futuro del cattolicesimo cinese alla luce di una figura che ha vissuto per anni la sofferenza per la fede, e nello stesso tempo è stato in grado di prendere decisioni difficili perché il Vangelo sia annunciato efficacemente in Cina”.
Alcune di queste decisioni sono davvero sorprendenti. Non si può che partire dalla sua scelta di accettare nomine, al seminario e poi come vescovo ausiliare, senza il consenso di Roma, cioè del Vaticano. Dunque nella Associazione Cattolica Patriottica, a cominciare dal seminario lui sceglie di ricostruire vocazioni, formazioni e luoghi di culto. Il vescovo Kung, anche lui a lungo arrestato e espatriato per potersi curare, avversò ogni accordo o compromesso con la Associazione Cattolica Patriottica. Cosa aveva guidato monsignor Jin nel tempo? Scrive Stephan Rothlin s.i.: “Si rese conto che andava affrontato lo spettro della sovversione, causa dei timori comunisti nei confronti di una Chiesa ancora diretta da missionari stranieri. Di conseguenza, propose di istituire una Conferenza dei vescovi cinesi che amministrasse le chiese in maniera consona agli interessi cinesi, non a quelli europei. Qualsiasi cosa avessero pensato di questa idea i comunisti, essa venne respinta categoricamente dall’inter-nunzio pontificio. Pertanto p. Jin concentrò i suoi sforzi sul seminario, dove preparò quanti più sacerdoti cinesi possibile, per colmare il vuoto creato dalla partenza dei missionari. Pochi anni dopo, nel 1955, anche lui venne arrestato insieme al vescovo Kung e ad altri. Quando fu riabilitato, nel 1980, dovette sopportare le critiche dei suoi confratelli cattolici, non solo in Cina ma anche a Taiwan e a Roma, che lo consideravano un ‘Giuda’ per la sua collaborazione con l’Associazione patriottica. È facile comprendere perché egli abbia voluto riprendere il suo posto in seminario, e poi accettare l’ordinazione episcopale a Shanghai” e cita un articolo del The Atlantic: “Sapeva che la Associazione Cattolica Patriottica lo avrebbe tenuto sotto stretta sorveglianza, ma capiva che questa era una necessità stringente: in tutta la Cina c’erano non più di 400 sacerdoti al servizio di tre milioni di cattolici. Era convinto che se la Chiesa voleva avere qualche possibilità di sopravvivere, la Cina avrebbe avuto bisogno di sacerdoti giovani, ben formati, pur se sarebbero stati sottoposti alla propaganda comunista durante la loro istruzione. Attraverso un ‘amico straniero’, chiese il permesso di Roma. Gli fu risposto che avrebbe dovuto ‘aspettare il crollo’ del Partito comunista, e soltanto allora si sarebbe potuto riaprire il seminario. ‘Hanno sottovalutato il Partito comunista cinese’, disse p. Jin. E così, dopo ‘avere molto pregato’, agì nel modo che riteneva più rispondente agli interessi dei cattolici della Cina”.
La dichiarazione riportata nel The Atlantic colpisce: “Non ho obbedito alla direttiva di Roma. Ho detto: Facciamo sopravvivere la Chiesa cattolica”. Quanto dichiarò in un’intervista colpisce ancora di più: “Quando sono uscito di prigione, la Chiesa qui era in rovina; dopo che ho sostituito il mio predecessore [il vescovo gesuita Aloysius Zhang Jiashu, consacrato illecitamente], ho scritto centinaia di lettere a cattolici di tutto il mondo, chiedendo soldi per ripristinare la comunità cattolica a Shanghai. La maggior parte dei contributi mi sono giunti dalla Germania; altri sono arrivati dall’America e da alcuni Paesi europei. Dal Vaticano non ho ricevuto nulla.” La sua scelta sofferta e non capita ricorda il titolo del grande padre della diplomazia vaticana, cardinale Casaroli: “Il martirio della pazienza”.
In quella stessa intervista il vescovo “patriottico” racconta: “A quel tempo il governo ci aveva proibito due cose: ci impedì di mettere in atto le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II – il che sarebbe stato visto come una resa al Vaticano – e di recitare la preghiera per il papa durante la Messa […]. Ho fatto dieci viaggi a Pechino per chiedere alle autorità il consenso a che si recitasse la preghiera per il Papa nella Messa, ma me l’hanno sempre rifiutato. Quindi, dal momento che dovevamo usare la vecchia Messa, ho contattato un amico tedesco e gli ho chiesto di recuperare quanti più volumi del Missale Romanum poteva; infatti si era concluso il Concilio e tutti li stavano gettando via. Mi ha mandato più di quattrocento messali scartati, che contenevano la preghiera per il papa. Li ho distribuiti. Ne avevo ricevuto anche nuove copie stampate a Shanghai e le ho spedite perché venissero usate altrove. Ci sono riuscito. È stato così che il nome del papa è stato di nuovo menzionato nella Messa.”
Ma non è tutto, non basta. Quella stessa intervista contiene un altro passo illuminante: “La comunità sotterranea è libera di muoversi a piacimento. È noto che, secondo il diritto canonico, il sacerdote deve rimanere sotto la giurisdizione dell’ordinario diocesano, ma il clero clandestino si muove per tutta la Cina a suo piacere, con grande libertà; questo è obbedire alla legge della Chiesa? E, quando il papa ha scritto la sua recente lettera alla Cina, è stata la comunità ufficiale a rispondere con spirito di obbedienza. Quella sotterranea l’ha quasi del tutto ignorata. È questa la docilità al papa? Inoltre, quando il Pontefice ha richiamato le due comunità cattoliche in Cina a ricomporre le loro differenze e a lavorare come un’unica Chiesa, il cardinale Zen a Hong Kong ha incoraggiato la Chiesa sotterranea a rimanere salda nella sua opposizione alla comunità ufficiale. È questo che il papa vuole?”.
Il libro prosegue con tanti altri racconti illuminanti sulla complessità. Le testimonianze del vescovo “patriottico”, mai prima proposte in italiano, aprono un mondo. Del tanto che dovrebbe essere detto mi sembra fondamentale leggere almeno questo suo passo sul Matteo Ricci, il gesuita per eccellenza, al quale oltre quattro secoli fa venne detto: ‘Arrivati in Cina fatevi cinesi’. Scriveva dunque di Matteo Ricci padre Jin; ‘i missionari devono farsi cinesi, non pretendere che i locali si facciano stranieri’. Ricci cominciò a rendersi conto che in Cina il sapere non coincide con le scienze naturali o la tecnica, ma piuttosto con la sapienza confuciana. Interessarsi solo a una conoscenza pratica significa dedicarsi solo a una minima parte del sapere; il grande sapere risiede nella conoscenza dei classici confuciani. Ricci familiarizzò con il confucianesimo, imparò a stimare il detto cinese per cui ‘le lettere servono a trasmettere il Tao’. Ricci era profondamente convinto che il Tao altro non fosse che la verità rivelata da Cristo, e perciò si diede allo studio del cinese e del confucianesimo da utilizzare come strumenti per la proclamazione del Vangelo”. Sì, questo libro ci fa capire davvero la prospettiva che il cardinale Tagle indica con accuratezza: “Essere pienamente cattolici e pienamente cinesi.”