Parlamentare per 4 legislature, Riccardo Pedrizzi è il Presidente Nazionale del Comitato Tecnico Scientifico dell’Ucid, Unione cristiana imprenditori e dirigenti, l’associazione della classe dirigente cattolica.
Costituita nel 1947, l’Ucid nasce sulle macerie del secondo dopoguerra all’interno del movimento di opere e idee che caratterizza i cattolici, impegnati in politica e nella società civile, nella ricostruzione morale e civile dell’Italia.
Fine osservatore di fenomeni socioeconomici, Pedrizzi ha scritto numerosi saggi tra cui ricordiamo “Una luce sul mondo, dalla Rerum Novarum alla Caritas in Veritate“, “I proscritti. Pensatori alla sfida della modernità“, “Giovanni Gentile, il filosofo della Nazione”, “Rivoluzione e dintorni. Dalle prime reazioni all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica”.
Pandemia a parte, la nostra economia è ormai in difficoltà da anni… tant’è vero che lei ha scritto un saggio intitolato “Il salvadanaio, manuale di sopravvivenza economica”. E’ d’accordo con Rifkin quando afferma che siamo definitivamente entrati nell’era della resilienza?
Si, ma siamo anche nell’era della finanziarizzazione dell’economia. I mercati finanziari valgono oggi circa 740 mila miliardi, 20 mila miliardi in più rispetto a quelli del 2007; quasi dieci volte il Pil mondiale. La finanza speculativa in poche parole è tornata. Nel 2007 uccise l’economia reale, oggi sarebbe ancora peggio, perché se scoppiasse un’altra crisi, non ci sarebbero nemmeno più gli Stati a farle fronte, essendo anche loro fortemente indebitati. I derivati sono oggi molti più di quelli che nel 2007 pur essendo considerati la principale causa della crisi.
Gli effetti della pandemia sulle economie nazionali sono oggi, da più parti, paragonati a quelli post-bellici e si è parlato a proposito di economia di guerra. Quali possono essere le conseguenze di questa crisi economica nel medio-lungo periodo?
Le conseguenze sono innanzitutto di carattere morale. La crisi sanitaria ed economica viene dopo. Cosi anche per l’Europa la crisi politica e culturale dell’Europa precede la crisi economica ed anche quella sanitaria. Tornare a ripensare l’Italia e il suo modo di stare in un contesto poco solidale e poco reattivo sarà il primo passo su cui costruire la ripartenza del nostro Paese e quella del resto del Continente. Con o senza virus.
Qual è la visione Ucid in merito al contrasto degli effetti della crisi? In che modo si possono aiutare le imprese che hanno più accusato il colpo?
Innanzitutto partiamo dagli insegnamenti che possiamo trarre da questa drammatica e tragica situazione pandemica. I limiti politici, economici e sociali di un approccio esclusivamente “scientista” ai problemi del mondo e sul futuro dell’umanità, sono purtroppo emersi in tutta la loro clamorosa evidenza. Il disvelamento dell’impotenza dell’uomo “onnipotente”, che grazie alla conoscenza e alla sola ragione credeva di poter dominare le dinamiche e le “trappole” della natura, ha rimesso al centro, non solo del dibattito culturale ma anche della stessa nostra vita, il tema della fede, della solidarietà, della fratellanza umana da opporre alla ideologia scientista, senza etica e valori. L’uomo ferito dal virus riemerge perciò dall’illusione dell’autosufficienza, del dominio sulla natura, della presunzione faustiana della ragione, della tecnica salvifica. Poi arriviamo alle soluzioni. Il risanamento dell’economia deve accompagnarsi ad una profonda e articolata revisione culturale del concetto stesso di Stato – da quello liberale classico a uno modernamente solidaristico e sociale – che riconosca, interpreti e ricomponga l’insieme delle trasformazioni sociali che ha comportato lo tsunami del Covid 19, inserendole in un grande progetto di sviluppo non solo economico ma anche civile. In un momento come questo di profonde inquietudini sociali ci sono almeno tre buone ragioni che lo Stato, le forze politiche, le istituzioni si occupino soprattutto delle piccole imprese. Esse, infatti, rappresentano: la base imprenditoriale e produttiva dell’intero sistema economico; un potente ammortizzatore economico e sociale tanto nelle fasi di espansione quanto in quelle di crisi economica come quella che stiamo vivendo; l’incubatrice di nuova imprenditorialità.
Nell’ambito della sua attività associativa lei ha l’opportunità di incontrare moltissimi tra imprenditori e dirigenti, dalle giovanissime leve ai capitani di lungo corso, qual è il sentimento comune verso la situazione che stiamo vivendo? Quali sono le esigenze che più le vengono rappresentate?
I dirigenti cattolici, sopratutto quelli più giovani, non hanno mai perso la speranza, la speranza cristiana. Ogni tragedia porta con sé nuove opportunità e, dunque, il tempo che si apre dinanzi a noi è proprio il tempo delle opportunità. Il che non vuol dire che ciò’ che verrà dopo sarà automaticamente migliore di ciò che è stato ma che potrà esserlo soltanto, però, se l’uomo si mostrerà capace di riprende il suo percorso di “cercatore di senso” prima che di “massimizzatore” di utilità.
Quando si parla d’Impresa non si fa quasi mai riferimento al fatto che oltre a garantire i beni ed i servizi necessari alla persona esse servono anche a garantirne, attraverso la retribuzione del lavoro, anche la possibilità di beneficiarne… Cosa si è rotto in questo meccanismo?
L’impresa, come la definiva San Giovanni Paolo II è innanzitutto una comunità di persone che sono al servizio dello sviluppo e della costruzione del Bene Comune. L’impresa è un’istituzione sociale che, in quanto tale, ha un “diritto di cittadinanza” che la rende meritoria di una serie di tutele e, in casi specifici, anche di sostegno. Questo stesso diritto le impone, però, di soddisfare determinate aspettative che la comunità cui appartiene ha nei suoi confronti, attraverso il rispetto delle regole di correttezza e trasparenza e l’attuazione di comportamenti solidali. Bisognerebbe però partire da una concezione del lavoro che non può continuare ad essere considerato come una merce qualsiasi. “Il lavoro umano è parte della creazione e continua il lavoro creativo di Dio. Questa verità ci porta a considerare il lavoro sia un dono che un dovere. Il lavoro perciò non è meramente una merce, ma possiede la sua propria dignità e valore. (…) Impegnandoci per accrescere le opportunità di lavoro, affermiamo la convinzione che solo “nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita”, (Evangelicum gaudium, p. 192).
Il Papa, non a caso, ha recentemente messo in guardia le Nazioni sulle conseguenze di una “crescita economica iniqua”, parlando di “economia malata”. Quali sono le malattie di questa economia globalizzata…
Non è l’economia malata. E’ l’uomo che è in crisi ed è per questo che Benedetto XVI parlava e suggeriva una vera e propria rivoluzione antropologica. L’economia come la finanza sono solo strumenti nelle mani dell’uomo per cui è il suo cuore che deve cambiare.
Quali sono, invece, le cure ormai necessarie ed improrogabili per l’economia italiana?
Bisogna promuovere un diverso e più ricco sistema di opportunità e di convenienze incentrato su grandi investimenti pubblici di base (politiche di agevolazione fiscale e di semplificazione amministrativa, banca dati, ricerca e sviluppo, servizi di sostegno alla produzione e alla commercializzazione, accesso al credito, infrastrutture) che motivino i privati a fare impresa, e questa a orientarsi anche in direzioni finora nuove, ma capaci di rivitalizzare la società civile e di creare nuova e più larga occupazione.
Un settore con queste caratteristiche esiste, ed è cruciale e imponente: i servizi sociali. Scuola, cultura, sanità, servizi urbani e ambientali, ma anche servizi all’infanzia e agli anziani, attività di solidarietà e di volontariato, cooperazione. Quest’area, che ha dato in gran parte una buona prova durante la pandemia, pur essendo stata nel passato fattore di crisi sociale e finanziaria dello Stato, va urgentemente sottratta al degrado e al dissesto e trasformata da problema in grande opportunità.
La strada è una: sottrarla alla gestione dello Stato e affidarla a un mercato – privato negli strumenti e nelle caratteristiche fondamentali, ma pubblico nelle finalità – regolato e controllato dallo Stato. Un mercato libero perché praticato in regime di concorrenza, ma vincolato nella qualità delle prestazioni e garantito nell’accessibilità ai servizi.
E’ ormai sotto gli occhi di tutti che siamo passati dal formare una classe dirigente all’abbandonarci ad una classe dominante. Sempre più spesso troviamo, in ruoli importanti e spesso cruciali, persone prive del necessario background in termini di istruzione, competenza specifica ed esperienza. Quanto conta ancora la gavetta?
Oggi sembrerebbe non più cosi, invece occorre sempre più studiare, aggiornarsi, percorrere un cursus honoris che ti porti al posto giusto al momento giusto. Non è possibile che si cerchino assessori con annunci sui giornali come è capitato a Roma. I requisiti richiesti erano la laurea in Economia e Commercio o in Giurisprudenza o in Ingegneria ed Architettura ma anche la condivisione del programma. Del resto se “uno vale uno” e se il fondatore di un movimento, che va per la maggiore, tra le varie proposte, ha sostenuto che si possono scegliere i parlamentari, tirando a sorte, anche un annuncio pubblico può servire per reclutare assessori.
Un tempo nei partiti seri c’erano le scuole di formazione, si seguiva un “corsus honorum” che partiva dalle organizzazioni giovanili e dalle attività più umili (si iniziava, ad esempio, attaccando i manifesti con la colla fatta di farina e si era addetti a stampare giornaletti con i vecchi ciclostili). In pratica per tutti i partiti di sinistra, di centro e di destra le scuole rappresentavano un investimento sulle nuove generazioni ed un tentativo di fare sintesi tra cultura e politica.
Ecco, da queste esperienze, più o meno gloriose, siamo passati agli annunci per reclutare qualche volenteroso. “AAA Cercasi Assessore”, come per qualsiasi lavoro generico e non qualificato.
Quali consigli darebbe ad un giovane che dimostri talento e leadership ma si senta già arrivato?
Munirsi di tanta umiltà. Le racconto, anche se non è bello fare dell’autobiografia, l’inizio della mia carriera in banca. Quando feci gli esami per essere assunto, gli esaminatori mi chiesero se con tutte le mie pubblicazioni volessi veramente entrare in banca. Poi il giorno dell’assunzione un grande direttore mi disse che avrei dovuto munirmi di tanta umiltà e che però avevo nel mio zaino il bastone da maresciallo (era quello che Napoleone Bonaparte andava ripetendo ai suoi soldati).