Implicazioni e conseguenze dell’omicidio del capo dei progetti nucleari iraniani. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Venerdì 27 novembre sull’autostrada che dalla cittadina di Absard porta a Teheran, l’automobile blindata con a bordo il capo del programma nucleare iraniano, Moshem Fakhzarideh, ha subito un’imboscata molto ben organizzata. Lo scienziato è rimasto ucciso, probabilmente insieme alle sue guardie del corpo. Le notizie sull’accaduto sono ancora confuse.
L’agenzia iraniana Farsi News ha addirittura parlato dell’uso da parte degli attentatori di una sorta di “mitragliatrice Robot” collocata su un pick up ai bordi dell’autostrada apparentemente comandata a distanza.
Una notizia suggestiva e probabilmente fantasiosa utile a stendere un velo pietoso sulla nuova debacle dei servizi di sicurezza iraniani che, per l’ennesima volta, non sono riusciti a garantire l’incolumità dei propri scienziati.
L’unica notizia certa è che Fakhzarideh è rimasto ucciso in un attentato che rischia di danneggiare in modo significativo il programma nucleare iraniano.
Lo scienziato viveva una vita così appartata e coperta dal segreto che nemmeno sulla sua età si hanno notizie certe.
Secondo i tecnici dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Iaea), l’organismo delle Nazioni Unite che sovrintende ai controlli internazionale sulla proliferazione nucleare, Fakhzarideh era impegnato a dirigere, fino al momento della sua morte, i progetti segretissimi miranti all’arricchimento dell’uranio, alla produzione di esplosivi ad alto potenziale e soprattutto alla costruzione di testate missilistiche in grado di trasportare materiale fissile.
Nonostante la sua vita nell’ombra, nel 2011 la Iaea lo aveva identificato come il capo del programma Amad, un piano a lungo termine organizzato dal regime degli Ayatollah venti anni fa, con lo scopo di trasformare l’Iran in una potenza nucleare in piena regola.
Israele lo aveva identificato ben prima dei tecnici dell’Onu: nel maggio del 2003 il vicedirettore del Mossad, Tamir Pardo, presentò al suo direttore, Meir Dagan e ai dirigenti operativi del Servizio segreto israeliano, un programma top secret per bloccare il piano Amad, un programma frutto di quattro mesi di spionaggio in Iran, mirante a frustrare i progetti atomici di Teheran.
Secondo fonti israeliane, Pardo delineò in modo semplice la sua proposta strategica: “In questa situazione Israele ha tre opzioni: la prima, conquistare l’Iran; la seconda, organizzare un cambio di regime a Teheran; la terza, convincere i politici iraniani che il prezzo che dovranno pagare per continuare il programma atomico sarà talmente alto che gli converrà interromperlo”.
Dal momento che sia la prima che la seconda opzione erano chiaramente irrealistiche, il governo israeliano dette inizio a una “guerra a bassa intensità” contro il regime degli Ayatollah mirante a realizzare la terza opzione: accanto a misure politiche e diplomatiche volte a ottenere l’isolamento internazionale del regime iraniano, Tel Aviv incaricò il Mossad di sostenere le attività di minoranze iraniane (i curdi), di gruppi organizzati di opposizione al regime (in primis, i Mujaheddin El Kalkh, Mek), di attivare piani per il sabotaggio della produzione di materiale fissile e, soprattutto, autorizzò l’uccisione mirata e selettiva delle figure chiave del programma Amad, gli scienziati nucleari di punta dei progetti atomici.
Il progetto del Mossad venne condiviso con gli americani, che accettarono di sobbarcarsi sia la parte politico diplomatica del programma, sia buona parte del finanziamento dei gruppi di opposizione interna la regime di Teheran.
Inoltre Cia e Mossad pianificarono insieme un’ampia gamma di azioni cibernetiche miranti a sabotare l’arricchimento e la produzione di plutonio iraniano. Venne varata un’operazione combinata denominata “Oliympic Games” che portò alla “infezione” dei sistemi computerizzati degli impianti nucleari iraniani con virus informatici, come il famoso Stuxnet, che nel 2009 portarono al blocco di tutte le centrifughe usate per l’arricchimento dell’uranio.
Nello stesso tempo, gli israeliani compilarono una lista di 15 figure chiave del programma Amad, da eliminare. Gli americani si tennero fuori dai piani di uccisione mirata degli scienziati iraniani, perché la Cia di Obama aveva paura di essere coinvolta in operazioni chiaramente illegali.
Tuttavia, come ammise il direttore della Cia del tempo, Michael Hayden, l’eliminazione dei tecnici poteva rivelarsi uno strumento essenziale per frustrare le ambizioni nucleari iraniane.
Durante la prima riunione del National Security Council, nel gennaio 2009, alla presenza dell’appena eletto presidente Obama, Hayden a proposito del materiale fissile stoccato nei laboratori di Natanz disse quanto segue”. Il problema non è quello di sapere quanto materiale fissile è stoccato a Natanz. Non ci sono a Natanz un elettrone o un neurone che possano trasformarsi in una bomba atomica.
Quello che stanno costruendo a Natanz e la conoscenza.
Quando gli iraniani avranno abbastanza conoscenza andranno da qualche altra parte ad arricchire l’uranio.
Quella conoscenza, signor presidente, è custodita nel cervello degli scienziati”.
Anche se gli americani si tenevano alla larga dalle uccisioni mirate dei tecnici iraniani, il Mossad non stava con le mani in mano.
Il 14 gennaio 2007, il fisico nucleare Ardeshir Hosseinpour cadeva avvelenato da un gas radioattivo.
Il 12 gennaio 2010, il dottor Masoud Alimohammad, membro di punta dell’equipe scientifica del progetto Amad, veniva ucciso dall’esplosione di una motocicletta minata posteggiata accanto alla sua automobile.
Il 29 novembre 2010 toccava al dottor Majid Shahriari, morto nell’esplosione della sua Peugeot, dopo che due motociclisti avevano applicato all’autovettura una bomba magnetica. Quello stesso giorno scampò alla morte un altro scienziato che con la moglie riuscì ad abbandonare l’auto prima dell’esplosione.
Nel luglio del 2011 il dottor Darioush Rezainejad, membro dell’Organizzazione Iraniana per l’Energia Atomica, veniva ucciso a colpi di pistola da un motociclista. Stessa sorte, con le stesse modalità, toccava il 12 gennaio 2012 al chimico della centrale di Natanz, Mostafa Ahmadi Roshani.
Questa serie di uccisioni mirate, apparentemente inarrestabile, ebbe vari effetti sulla comunità scientifica iraniana e sulla politica di Teheran.
Da un lato, come ammise lo stesso Fakhzarideh l’ultima e forse più illustre vittima della longa manus di Israele, rese la vita degli scienziati iraniani “un inferno”: sotto scorta costante e ossessiva dei servizi di protezione, senza più una vita sociale quello che all’inizio sembrava un cursus honorum, si trasformava in un girone infernale.
Dall’altro lato, la sensazione di essere oggetto di una inarrestabile penetrazione spionistica dall’esterno rendeva le autorità di sicurezza iraniane sospettose al limite della paranoia, costringendole a paralizzanti e asfissianti misure di controllo interno che spesso ne hanno paralizzato l’azione.
Inoltre, come ammise il direttore del Mossad, Meir Dagan in una rara conferenza pubblica, le uccisioni provocavano in Iran un “Defezione bianca”, una costante emorragia di scienziati che chiedevano di abbandonare la ricerca nucleare per essere destinati ad altro incarico.
La guerra “a bassa intensità” dichiarata informalmente da Israele all’Iran nel 2003 ha avuto i suoi risultati.
La comunità internazionale ha sottoposto l’Iran a sanzioni economiche e commerciali che ne hanno collassato l’economia. Nel 20015, Teheran ha accettato il “Nuclear Deal” proposto dall’Onu e siglato un patto di non proliferazione garantito da Germania, Francia, Russia e Stati Uniti.
Il patto è stato abbandonato dal presidente Trump nel 2018 per protestare contro l’accresciuto attivismo dell’Iran in Yemen e Siria in chiave di confronto con l’Arabia Saudita, alleato strategico degli Usa in tutto lo scacchiere medio orientale.
Il neo presidente americano Joe Biden durante la campagna per le elezioni alla Casa Bianca ha ripetutamente dichiarato che sotto la sua amministrazione gli Stati Uniti avrebbero ripreso il loro posto al tavolo del “Nuclear Deal”, convinti di poter riportare l’Iran sulla “retta via” della non proliferazione nucleare.
Forse proprio di fronte a quest’ultima prospettiva, Israele ha forse voluto mandare un segnale a Teheran con l’uccisione del capo dei suoi scienziati nucleari della scorso 27 novembre: anche se Tel Aviv ha perso il sostegno attivo di Donald Trump con la sua uscita dalla Casa Bianca la vigilanza su Teheran resta alta e lo resterà finché gli iraniani non abbandoneranno definitivamente il sogno di diventare una potenza nucleare in grado di dettar legge con la persuasione atomica sul Golfo Persico e su tutto il Medio Oriente.
In questa strategia, Israele ha il sostegno sempre più palese e attivo di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein, in nuovi anelli di una catena di alleanze regionali che dovrebbero convincere Teheran a cercare una via del compromesso politico con gli interlocutori ai suoi confini e lasciando cadere i progetti egemonici degli ultimi anni. Forse l’omicidio di Fakhrizadeh, invece che stimolare propositi di rappresaglia, potrebbe paradossalmente rendere più vicino un compromesso politico.