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America First, cosa cambierà con Biden? L’analisi di Alli

Biden

Come cambia la politica estera Usa con Joe Biden? Il presidente-eletto si troverà stretto in una morsa: non vorrà ripercorrere gli stessi passi di Barack Obama ma non potrà del tutto affossare quattro anni di America First targata Donald Trump. Terza puntata dell’analisi sulle elezioni americane di Paolo Alli, già presidente dell’Assemblea Parlamentare della Nato

Gli Stati Uniti appaiono fortemente focalizzati sulle proprie contraddizioni interne, con conseguenze negative sulla percezione da parte degli interlocutori internazionali, sia in termini di statura morale, sia sul piano della sua autorevolezza come player globale. Questo atteggiamento di ripiegamento su se stessi, quasi a confermare che lo slogan America First sia tutt’altro che sconfitto con Trump, non è, infatti, senza serie ripercussioni sugli scenari globali.

Nel suo interessante contributo, Will Wechsler dell’Atlantic Council osserva che il persistere e l’amplificarsi delle divisioni interne spinge i leader stranieri a pensare che gli Stati Uniti abbiano abdicato, più o meno coscientemente, al proprio ruolo di leader dei valori liberali nel mondo, e costringa anche chi a Washington vorrebbe riaffermare questi stessi valori come fondamento della società a riconsiderare in che direzione vada oggi realmente il sentimento del popolo americano.

Anche sotto il profilo della sicurezza globale, l’involuzione del Paese su se stesso rafforza la percezione di un arretramento americano dagli scenari di crisi, rafforzando l’idea che gli USA stiano rinunciando alla propria tradizionale leadership globale e regionale.

Infine, per tutti coloro che hanno a cuore il rispetto della democrazia e dei diritti umani, una competizione elettorale per la prima volta così unfair, caratterizzata da accuse incrociate di ogni genere, rappresenta un grave segnale di incoraggiamento alla violenza politica, certamente rischioso per le sue conseguenze, anche a livello internazionale.

L’autorità e l’autorevolezza degli Usa nel mondo hanno avuto per molto tempo la loro radice nella profonda unità di intenti del popolo, che ha sempre visto nella figura del presidente il garante ultimo. Nei suoi quattro anni di presidenza, Trump sembra, invece, avere esasperato le tensioni e le divisioni interne, alimentando un approccio autarchico e sovranista che ha segnato una sostanziale abdicazione americana rispetto allo storico ruolo di faro dei grandi valori della libertà e della democrazia per il mondo.

Il punto di crisi più evidente è stata la sconfessione e la delegittimazione del multilateralismo, che aveva rappresentato la più grande invenzione delle democrazie occidentali dopo il secondo conflitto mondiale per scongiurare il rischio di grandi conflitti mondiali, attraverso il metodo del dialogo tra i popoli.

Trump ha cercato di uccidere il multilateralismo e i suoi simboli, a partire dalle Nazioni Unite e dalle sue agenzie come Unesco e Oms, ha messo in discussione i grandi accordi internazionali, a partire da quelli sui cambiamenti climatici, ha indebolito i rapporti con i grandi alleati storici – a partire dall’Europa, ha cercato persino di minare alle basi la credibilità della Nato, quasi dimenticando che l’Alleanza Atlantica ha sempre rappresentato per gli Stati Uniti un baluardo, prima contro il nemico russo,  oggi rispetto ai sempre più complessi rischi che provengono non più solo da est, ma anche da Mediterraneo e Medio Oriente.

Sia chiaro che Trump ha avuto spesso ottime ragioni per criticare molti di questi organismi multilaterali, ma, anziché imporre tutto il proprio peso negoziale sui tavoli internazionali per correggerne la rotta, ha preferito la via del disimpegno e della delegittimazione.

I nemici storici dell’approccio multilaterale, cioè i regimi totalitari, a partire da Russia e Cina, hanno approfittato di questa persistente delegittimazione per imporre le proprie logiche unilaterali o bilaterali in numerosi scenari, compreso lo scacchiere del Mediterraneo e del Medio Oriente. Proprio il rilancio del multilateralismo è il primo banco di prova al quale Biden è atteso da parte della comunità internazionale.

Per dare segnali rassicuranti in questa direzione, il Presidente eletto ha già annunciato di voler riportare gli Stati Uniti dentro il contesto degli accordi sui cambiamenti climatici. Non sarà, tuttavia, sufficiente questa prima dichiarazione di intenti, ma ad essa dovranno seguire fatti concreti su diversi fronti strategici, Biden dovrà decidere se dare una sterzata decisa verso un rinnovato impegno americano nei grandi organismi multilaterali, a cominciare dall’Onu e delle sue agenzie.

È presumibile che la sua politica andrà in questa direzione, anche per invertire la tendenza autarchica e isolazionista della precedente amministrazione. Ciò non significherà che gli Stati Uniti diventeranno i benefattori del mondo, ma che quasi certamente ci potremo aspettare un loro impegno, anche morale, a riaffermare il proprio ruolo di alfieri della libertà e della democrazia.

Sfide globali e locali

In politica estera Biden si troverà sul tavolo molti dossier scottanti.

Negli ultimi decenni, gli Usa hanno alternato, in campo internazionale, eccessi di protagonismo a fasi di rapido e altrettanto eccessivo disimpegno. Biden, nella sua posizione di Vicepresidente, ha condiviso la politica estera di Barack Obama, che definire ondivaga e a chiaroscuri è persino troppo generoso.

Prigioniero del premio Nobel per la pace, ricevuto dopo un solo anno di presidenza, il predecessore di Trump ha connotato i successivi sette anni del proprio mandato con un pacifismo eccessivamente rinunciatario, rendendosi responsabile, ad esempio, del totale disimpegno degli Stati Uniti dal quadrante medio orientale.

Un arretramento che, insieme ai disastri degli eccessi di interventismo dell’amministrazione Bush, tanti danni ha creato ai fragili equilibri della regione, consegnandone il controllo nelle mani di Russia e Turchia, aiutato in questo dall’inconsistenza della politica estera europea.

Se si eccettuano gli accordi con l’Iran e, nell’ultima fase dei suoi otto anni di presidenza, quelli con Cuba, è ben difficile trovare nell’operato di Obama una posizione lineare e determinata in politica estera.

Ciò si è visto, oltre che nell’arretramento rispetto allo scacchiere medio-orientale, nella scarsa capacità di contrapporsi alla crescente assertività di Russia e Cina, con le loro aggressioni violazioni dell’integrità territoriale, come quelle attuate da Mosca in Georgia e in Ucraina e da Pechino nel mar Cinese Orientale e Meridionale.

Ondivaga è stata anche la sua posizione verso conflitti sia reali, come quelli in Siria, Iraq, Libia, sia potenziali, come nel caso della Corea del Nord. Gli alleati storici in estremo oriente, Giappone e Corea del Sud, sono stati progressivamente lasciati soli (e Trump non ha certo invertito la tendenza), abbandonandoli alle mire espansionistiche della Cina. L’arretramento dal quadrante medio orientale ha anche indebolito la storica alleanza con Israele.

Biden, allora in qualche modo concorde con queste decisioni nella sua qualità di vicepresidente, dovrà chiarire se intenderà continuare quella discutibile strategia o se vorrà restituire gli Stati Uniti al ruolo di soggetto equilibratore e garante della democrazia e della sicurezza che la storia ha loro assegnato. Un’ipotesi, questa, di ben difficile realizzazione, sia per le prevedibili resistenze della sinistra democratica, sia perché lo stesso Trump, rinchiudendosi nell’America first, non aveva certo invertito le tendenze isolazioniste, anzi ne aveva amplificato la portata.

Il compito di Biden in politica estera sarà probabilmente più complesso persino rispetto alle sfide che lo attendono in politica interna.

Potrà essere d’aiuto al nuovo Presidente un eventuale Senato – che ha il potere di ratificare i trattati internazionali – a maggioranza repubblicana? Forse ci potrebbero essere convergenze su alcuni dossier, ma certamente non su altri, a partire dall’accordo sul nucleare iraniano, sempre osteggiato dal Gop, pur se autorevoli rappresentanti repubblicani avrebbero preferito una rinegoziazione degli accordi rispetto all’uscita unilaterale messa in atto da Trump.

 

Terza puntata di una serie di approfondimenti sulle elezioni Usa di Paolo Alli

Qui le puntate precedenti: 1) 2)


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