Nel complesso dell’Accordo sembra che l’Ue abbia fatto meno concessioni di quante ne abbia fatte il Regno Unito, ma in realtà è difficile stabilire da che parte pende la bilancia, perché su molti punti importanti si statuiscono solo principi e non regole cogenti. Ue e Uk sono costrette a collaborare per via della necessità di mantenere sempre un quadro di armonia in Europa. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse e docente presso l’Università di Tor Vergata
Dopo aver navigato faticosamente attraverso le 1246 pagine dell’accordo, esclusi le appendici e gli annessi, un osservatore esterno rimane alquanto costernato sull’esito del negoziato per la Brexit. Si chiede giustamente quale tipo di relazioni economiche ed extra-economiche gli Stati dell’Ue possono attendersi da un Paese, il Regno Unito, che ha lasciato l’Unione perché rifiuta di accettare le sue regole e vuole riprendersi la sua piena autonomia d’agire soprattutto secondo i suoi interessi del momento?
La perplessità è rafforzata dal diverso atteggiamento con cui le due parti hanno presentato l’accordo ai loro cittadini e con cui lo interpretano per la sua futura applicazione. Da parte della Commissione Ue si è teso a sottolineare quei benefici che il Regno Unito perde con il ritiro dall’Unione, mentre dall’altra parte si enfatizza il riconquistato potere di operare per l’interesse di una “Bretagna Globale” (parole del premier), come se lo stare nell’Ue avesse comportato in qualche misura un detrimento. Al contempo, le autorità britanniche evidenziano che con l’accordo si è ottenuto di poter continuare a godere dell’accesso al Mercato Unico e di poter partecipare ad alcune attività o godere di alcuni servizi dell’Ue dietro corrispettivo. In altri termini, una collaborazione à la carte.
Naturalmente ciascuna delle parti tende a calcare le tinte per mostrare ai suoi cittadini di aver protetto i loro interessi ottenendo un accordo soddisfacente per entrambe. Per valutare i risultati occorre, pertanto, tralasciare gli altisonanti impegni di principio sulla collaborazione nei diversi campi coperti dall’Ue per riferirsi, invece, agli obiettivi effettivi che ciascuna parte intendeva perseguire entrando nel negoziato e confrontarli con i risultati, quali emergono dalle clausole dell’accordo.
Per i britannici era essenziale assicurarsi il mantenimento del libero scambio di beni e servizi senza intralci nel Mercato Unico, e un trattamento particolare, molto prossimo a quello di cui godeva nell’Unione, nelle aree dell’energia, trasporto e sicurezza sociale, insieme alla collaborazione nei temi della sicurezza, delle attività giudiziarie, ricerca, sanità e programmi ad alta tecnologia, come le attività spaziali. Al tempo stesso, miravano a porre un freno all’immigrazione dall’Ue, affrancarsi dalle sue regole sul libero movimento dei suoi lavoratori, limitare l’accesso delle flottiglie pescherecce europee nelle sue acque e disciplinare secondo le sue regole la concorrenza di mercato e gli aiuti di Stato. Rivelatore del loro atteggiamento è l’aver insistito perché per ciascuna di queste materie si concordassero accordi separati, posizione che non può trovare altra giustificazione se non quella di non mettere a repentaglio l’intero accordo nel caso in cui si sviluppassero divergenze o violazioni su singoli capitoli.
La Commissione europea si è opposta a questo approccio e ha ottenuto il consenso sul raggiungimento di un accordo unico, con la separazione solo di quello con l’Euratom per la cooperazione in ambito nucleare e sulle procedure per lo scambio e protezione di informazioni riservate. Tuttavia, ha dovuto cedere nell’ammettere che da diverse clausole il Regno Unito potesse recedere senza mettere in crisi l’intero trattato. Ha, altresì, accettato che sulle controversie relative all’applicazione dell’accordo non fosse più competente la Corte di Giustizia Europea, ma un tribunale arbitrale, le cui procedure sono definite in dettaglio. Questa soluzione apre in effetti una grande incertezza sul rispetto sostanziale delle intese, in quanto si tratta di una corte di tre arbitri, la cui indipendenza non potrà essere garantita in assoluto, che non necessariamente adotta il metodo dei giudici europei di stretta interpretazione delle clausole, e che in caso di divergenze nella selezione degli arbitri si affida all’estrazione a sorte da elenchi di esperti “indipendenti” proposti dalle parti. La loro decisione è peraltro immediatamente esecutiva e in caso d’inadempienza dà diritto a misure di rivalsa.
In virtù dell’Accordo gli scambi commerciali tra le due aree sono esenti da dazi e quote, ma devono uniformarsi a standard accettati da entrambe, condizione agevole per il Regno Unito, in quanto ha finora applicato quelle dell’Ue, che tuttavia non garantisce l’uniformità per il futuro se dovessero essere mutate soltanto da una delle parti. Vengono eretti ad ogni modo i controlli doganali e su standard, col risultato di introdurre barriere regolatorie e tecniche. Nondimeno, sono previste diverse facilitazioni dirette a snellire le certificazioni, il movimento di merci e in alcuni settori il riconoscimento reciproco delle attestazioni. Quindi si può ritenere che il sistema produttivo britannico continuerà a competere nel Mercato Unico senza molti intoppi, sebbene su alcuni aspetti si applicheranno le regole meno favorevoli dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Più restrittivo è invece per l’Ue l’accesso alla pesca nelle acque britanniche, in quanto la quota di cattura di competenza del Regno Unito è aumentata di due terzi nei prossimi cinque anni e mezzo, al cui scadere vengono eliminate le quote per procedere con accordi annuali.
Nel campo dello scambio di servizi, particolarmente di quelli finanziari, che stanno a cuore della Gran Bretagna perché forniscono un notevole contributo alla formazione del suo reddito nazionale, si erigono nuove barriere con eccezioni per i servizi di investimento, il libero movimento di capitali e il limitato riconoscimento di alcune qualifiche professionali, come quelle delle professioni legali. Ma non vi sono certificazioni di equivalenza come il cosiddetto passaporto per le istituzioni finanziarie britanniche che operano nel mercato dell’Ue e che dal 2021 perderanno accesso automatico al mercato finanziario dell’Unione. Questo è un punto dolente per il governo britannico che vorrebbe ottenere maggiori benefici, ma è riuscito solo ad avere un impegno a negoziare un memorandum di intese. Di positivo per il Regno Unito è l’intesa su alcune condizioni volte a facilitare il commercio elettronico e il flusso dei dati relativi.
Punti critici per l’Ue sono piuttosto le condizioni per instaurare un commercio equo a parità di condizioni tra le due parti, perché sugli aiuti di Stato e sulla concorrenza le clausole non garantiscono un livellamento delle posizioni. Ciascuna parte applica le sue condizioni e si stabiliscono alcuni principi generali, lasciando alle parti latitudine sul come attuarli. Per gli aiuti di Stato si fa riferimento alle regole dell’Oms. In caso di vertenze sull’effetto di distorsione degli scambi, la soluzione sta essenzialmente nella collaborazione e nell’arbitrato, con regole precise sulle contromisure che sono autorizzate, comprese quelle che si possono adottare rapidamente per neutralizzare la concorrenza sleale. Capitolo altrettanto dolente per l’Ue è la protezione degli standards di protezione del lavoro e a carattere sociale, campo in cui si condividono soltanto generici principi di non regressione dai livelli attuali, che si applicano di solito agli accordi di libero scambio. La possibilità di social dumping non può, quindi, dirsi esclusa.
Qualche concessione di durata temporanea viene data all’Ue sul movimento dei cittadini verso e dal Regno Unito senza necessità di un visto, come per l’assistenza medica ai visitatori e la conservazione dei diritti pensionistici per i lavoratori che si trasferiscono da una parte all’altra, ma viene meno la libertà per i lavoratori dell’Unione di soggiornare a lungo e di trovare un’occupazione nel Regno Unito se non entro le regole e i contingentamenti stabiliti da ciascun Paese.
Nei settori della tassazione, del trasporto aereo, dell’energia, della lotta al cambiamento climatico, delle commesse pubbliche rimane la reciproca autonomia di regole con l’impegno a cooperare per gli obiettivi condivisi. Su alcuni settori particolari, invece, si scende più in dettaglio, ricorrendo a specifici annessi all’Accordo per evitare barriere non tariffarie, quali certificazioni, o per facilitare gli scambi attraverso il mutuo riconoscimento del rispetto delle buone prassi e delle specifiche nazionali. È questo il caso degli scambi di medicinali, veicoli a motore e componentistica, prodotti chimici ed organici, e vini, sempre facendo appello a regole internazionali in vigore e non a quelle europee. Per l’Italia questi annessi sono da considerare positivamente perché agevolano le esportazioni pur nell’ambito dei nuovi controlli doganali. Va ricordato che l’export del nostro Paese verso il Regno Unito è concentrato nei prodotti della meccanica e auto, quelli alimentari e i vini.
In un accordo così esteso e complesso con allineamenti di regole in alcuni campi e disallineamenti in altri, con ampie aree grigie in cui prevalgono impegni generici piuttosto che vincoli precisi e con molti dettagli piccoli ma importanti, non si poteva lasciare l’attuazione dell’Accordo all’indipendenza delle parti. Si è, quindi, costituito un Consiglio di Partenariato a partecipazione paritaria con compiti di supervisione politica della messa in atto e di direzione strategica. Il Consiglio si avvale di una nuova rete di comitati costituiti appositamente per affrontare i vari capitoli. Di fatto, si ricrea su scala ridotta un’articolazione istituzionale propria del modus operandi della Commissione europea, che implica che il Regno Unito riconosce implicitamente l’utilità di queste strutture europee, verso cui in passato mostrava insofferenza.
Nel complesso dell’Accordo sembra che l’Ue abbia fatto meno concessioni di quante ne abbia fatte il Regno Unito, ma in realtà è difficile stabilire da che parte pende la bilancia, perché su molti punti importanti si statuiscono solo principi e non regole cogenti, e molto è lasciato alla collaborazione continua e al dialogo quando si condividono gli specifici obiettivi nella materia, ma quando divergono, si ha sempre l’incognita dell’ultima istanza dell’arbitrato.
Nel caso di insoddisfazione degli interessi di ciascuna delle parti non restano che due rimedi: 1) la prevista revisione quinquennale dell’Accordo, revisione che può anche verificarsi ogni qual volta un nuovo Stato aderisce all’Ue; e 2) l’ancor più radicale misura dell’uscita dall’Accordo con 12 mesi di preavviso. Quest’ultima opzione non mette fine ad alcune clausole di cooperazione che sono regolate ad hoc.
Alla luce di queste distinzioni si direbbe che alla fine, malgrado i dissensi, Ue e Regno Unito sono costretti a collaborare per via della necessità di mantenere sempre un quadro di armonia in Europa.