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Rozzo, semplice, triviale. Ecco il linguaggio della Lega

Rozzo, semplice, triviale. Questi sono gli aggettivi usati abitualmente per definire il linguaggio della Lega. Come scrive Biorcio (1997), le manifestazioni simboliche del partito vengono lette solitamente o con disprezzo o con ironia.
Tuttavia, ad un’analisi più attenta, il linguaggio della Lega si rivela più complesso, più raffinato e più curato di quanto l’opinione comune sia disposta a credere.
 
Facciamo una premessa: non esiste un linguaggio efficace in assoluto; un linguaggio è efficace solo se corrisponde all’immagine e alla strategia complessiva dell’uomo politico o del movimento che lo utilizza. Per comprendere il significato di questa affermazione dobbiamo ricordare che la Lega deve il proprio successo – fra gli altri – a due elementi: il primo è la capacità di comprendere le esigenze di un territorio, la cosiddetta questione settentrionale o il male del Nord, per riprendere l’evocativo titolo di un libro di Diamanti (1986). Si tratta di richieste risalenti nel tempo, che trovano una prima organizzazione associativa già negli anni settanta, quando il movimento leghista o, meglio, i movimenti leghisti, muovono i primi passi (Allievi, 1992).
 
Allo stesso tempo non si può dimenticare il secondo fattore che contribuisce ai risultati elettorali della Lega, ovvero la componente di disaffezione verso le forze politiche tradizionali che Mannheimer (1991) prefigurava ben prima dello scoppio di Tangentopoli. Il linguaggio dei politici del Carroccio si mostra efficace, dunque, innanzitutto perché marca una discontinuità, è coerente con quell’alterità che il partito manifesta al livello esplicito del discorso. In sintesi, la Lega è diversa e parla in modo diverso.
 
Come sintetizza Diamanti: la diversità della Lega «trova motivi di ulteriore enfasi attraverso lo stile e i “mezzi” utilizzati nella comunicazione, ben lontani dalla formalità e dalle regole dei soggetti politici tradizionali, ma proprio per questo efficaci nel marcare la specificità e la distanza rispetto a tali soggetti e in grado di costituire il riferimento per nuove identità» (Diamanti, 1995, p. 15).
 
Si realizza una triplice frattura, rispetto al linguaggio nazionale, al linguaggio della politica e ai canali di comunicazione. Cosa vuol dire?
Cambiano innanzitutto i luoghi della comunicazione: «invertendo la tendenza dei partiti a comunicare con il pubblico sempre più attraverso la televisione e la grande stampa, la Lega ha privilegiato le forme di comunicazione più povere e tradizionali, che si basano sul contatto diretto con i cittadini» (Biorcio, 1997, p. 189). La scrittura murale, il manifesto, il comizio e il volantino tornano prepotentemente sulla scena politica. Ancora oggi la presenza dei politici leghisti in televisione è limitata 3 e un grande peso viene attribuito alla presenza sul territorio, come abbiamo visto.
 
Parallelamente i leghisti rompono la consuetudine con il politichese preferendo un linguaggio quotidiano e popolare, semplice dal punto di vista lessicale e sintattico, con termini di uso comune e scarso ricorso alla subordinazione. L’uso di termini dialettali e il turpiloquio contribuiscono a rafforzare la sensazione di rottura con i codici tradizionali della politica e, allo stesso tempo, rappresentano uno strumento pubblicitario di grande forza che i leghisti usano consapevolmente.
 
Come racconta lo stesso Bossi (1992, p. 99): «abbiamo capito che gli aspetti folcloristici della nostra attività e gli equivoci più maliziosi sulla proposta federalista erano un’ottima pubblicità. Pubblicità negativa, certo, ma tutto fa brodo quando un movimento è agli albori e non ha entrature nei santuari della stampa di regime».
 
 
 
Estratto dal libro:Le parole sono importanti”, di Gianluca Giansante (Carocci editore, 2011) per gentile concessione dell´autore.
 
Gianluca Giansante è ricercatore, formatore e consulente di comunicazione


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