Iniettare nel sistema economico la massa di finanziamenti messa a disposizione dall’Ue produrrà molto probabilmente un rimbalzo dalla recessione non appena la pandemia sarà sotto controllo. Ma in assenza di misure per ottenere cambiamenti radicali di sistema, ben difficilmente l’economia crescerà negli anni per riportare il Paese nel novero di quelli sviluppati. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse
Che la definizione del Piano Pnrr avrebbe provocato una crisi di governo era ipotizzabile fin dall’inizio dei lavori, data la posta in gioco e la diversità di interessi in una coalizione eterogenea come quella appena terminata. Differenti gli obiettivi verso cui indirizzare il Paese nel decennio iniziato e differenti gli interessi da tutelare o intaccare. Il risultato è un piano che cerca di accontentare tutti con interventi in una moltitudine di campi, piuttosto che concentrarsi su una visione organica del cammino e sui modi da seguire per giungere a una crescita soddisfacente (2-3% all’anno) e duratura. Si ricorre alle priorità raccomandate dalla Commissione Ue per insistere sui passati interventi che non hanno prodotto finora lo sviluppo atteso, mentre sulle necessarie, profonde riforme di sistema soltanto espressioni di intenti generici senza dettagli concreti sulle azioni e sui cambiamenti che si vuole ottenere.
Iniettare nel sistema economico la massa di finanziamenti messa a disposizione dall’Ue produrrà molto probabilmente un rimbalzo dalla recessione non appena la pandemia sarà sotto controllo, ma in assenza di misure per ottenere cambiamenti radicali di sistema, ben difficilmente l’economia crescerà negli anni per riportare il Paese nel novero di quelli sviluppati. Molte osservazioni critiche sono state sollevate al Pnrr, non tutte peraltro fondate sulla realtà di quanto è fattibile nel Paese col sistema in vigore e con una cultura sociale tutta improntata alla massimizzazione dei diritti senza bilanciarla con i doveri corrispondenti.
Ad esempio, si sostiene che sarebbe opportuno concentrare sugli investimenti pubblici un maggior volume delle risorse europee prese a prestito, anche se si traducono in maggior debito pubblico, perché le analisi econometriche in molti paesi mostrano un impatto positivo sulla dinamica del Pil superiore a quanto speso (un moltiplicatore superiore all’unità). La tesi sarebbe valida in linea teorica, ma nella realtà italiana si dimentica che una fetta rilevante degli investimenti hanno effetti modesti sulla crescita, sono governati da autorità locali che perseguono progetti di scarsa rilevanza per la produttività e competitività del sistema produttivo, e rimangono invischiati nelle lunghe procedure per la progettazione e le autorizzazioni.
Possono anche divenire ostaggio per anni di piccole comunità territoriali, che condizionano il loro placet a sostanziose contropartite che dilatano i costi e ritardano l’esecuzione di opere pubbliche. Lo si è già visto per grandi progetti d’interesse nazionale come il gasdotto del Tap, la rete elettrica e la rete in fibra ottica di Open Fiber. Pertanto, se si vuole ottenere un effetto congiunto di maggior crescita con riduzione del rapporto debito/Pil è inevitabile procedere con una riforma costituzionale che riporti al centro competenze avventatamente decentrate.
Ai ritardi generati dalle autorità locali vanno aggiunti quelli a livello centrale di cui si hanno esempi cospicui. La norma per sbloccare i cantieri dopo più di tre mesi non riesce a operare per le lentezze che si cumulano nella procedura tra ministeri e presidenza del consiglio. I provvedimenti dell’ultima legge di bilancio per la ripresa economica richiedono ben 176 decreti attuativi, la cui emanazione richiederà tempi lunghi come avvenuto negli anni passati.
Nel breve termine, quindi, bisogna fare leva su entrambi, consumi ed investimenti privati mediante il ricorso a bonus, a temporanei alleggerimenti della tassazione ed a incentivi, in particolare nel settore delle costruzioni attraverso il cosiddetto superbonus. Gli incentivi a investire nel digitale sono altrettanto necessari, ma si scontrano con la lentezza nel realizzare le necessarie infrastrutture e con le difficoltà che molte piccole e medie imprese incontrano nel riorganizzare il loro modello di business per poter beneficiare della transizione al digitale.
Anche la cosiddetta Rivoluzione Verde non può fare da motore per ottenere una rapida ripresa, ma piuttosto per aumentare il potenziale di crescita economica nel medio periodo, quando avrà avuto modo di incorporare nuove tecnologie, di diffondersi tra un gran numero di imprese e di rispondere a forti incrementi della domanda privata e pubblica per beni e servizi ad alta efficienza energetica ed ambientale.
Questi esempi mettono in risalto l’importanza di programmare un attento sequenziamento delle misure nei diversi campi per far sì che alla ripresa congiunturale dopo la recessione segua una tendenza di più lungo periodo a investire e a soddisfare l’accresciuta domanda tanto di consumi, al termine delle restrizioni, quanto del mercato mondiale, al ritorno all’espansione.
Contare su ricerca ed innovazione come propulsore della crescita in questo biennio è illusorio proprio per i tempi non brevi necessari per identificare le tecnologie o tecniche più promettenti, trasferirle nel contesto produttivo, riorganizzare i processi produttivi, lanciare nuovi prodotti e suscitare una domanda adeguata. Non si può far leva sulla digitalizzazione se le infrastrutture e i servizi complementari non sono completati ed operativi, né confidare sulla trasformazione dell’Italia in un Paese innovatore quando manca una cultura sociale aperta all’innovazione ed invece prevalgono l’assistenzialismo e la conservazione di norme ed istituzioni obsolete. Solo passaggi generazionali e continuità negli anni delle riforme potranno condurre alla meta prescelta.
L’interconnessione tra le linee di intervento e il sequenziamento delle misure, tuttavia, non sono definiti nel Pnrr se non per il profilo temporale della disponibilità delle risorse fino al 2026, né è deciso a chi sarà dato il compito delicato di gestire con coerenza e determinazione l’esecuzione del Piano. La necessità di una struttura di gestione snella e con procedure speciali sembra indiscussa per assicurare il successo del Piano.
Il capitolo delle riforme di sistema si rivela ancora come il più debole e più esposto a critiche per le manchevolezze e la genericità, con l’eccezione della giustizia. La riforma della tassazione si limita ad alleggerire le aliquote Irpef per i lavoratori dai redditi medi e bassi e ad avanzare nella digitalizzazione del fisco. Non si spiega, invece, come sia possibile ottenere dalla minore tassazione di questa fascia di redditi un aumento del tasso di occupazione e una riduzione del lavoro sommerso (pag.10 del Pnrr). La scienza economica non arriva a tanto. Restano fuori lo snellimento degli adempimenti fiscali facendo miglior uso delle banche dati già a disposizione e l’alleggerimento della tassazione complessiva per alleviare il carico sulle imprese ed allinearsi sui livelli di pressione fiscale dei paesi più competitivi.
La riforma della Pubblica amministrazione si basa su elementi contraddittori, ovvero da un lato, la digitalizzazione accompagnata dalla semplificazione dei procedimenti per renderli più veloci e meno costosi, e dall’altro lato, massicce assunzioni di nuovo personale. La digitalizzazione e la semplificazione dovrebbero, al contrario, aumentare la produttività e ridurre il bisogno di ampliare numericamente il personale. Competenza e professionalità del personale fanno premio sulla sua numerosità. Gli investimenti nel capitale umano andrebbero, pertanto, concentrati nella formazione mediante un esteso programma di addestramento del personale al miglior impiego del digitale e un ricambio generazionale per immettere risorse più competenti o versatili nell’assorbire gli avanzamenti tecnologici.
Efficienza gestionale ed operativa unitamente a capacità di analisi e programmazione sono le caratteristiche da privilegiare nei funzionari pubblici, particolarmente nelle autorità decentrate, in cui sono maggiormente carenti. Per raggiungere questi risultati è inevitabile agire a monte attraverso un’opera di deregolamentazione, ove opportuno, e di effettiva semplificazione delle norme. A valle, è invece essenziale colmare le carenze nei ruoli tecnici e di analisti assumendo specialisti e separando le loro carriere da quelle amministrative.
La riforma della giustizia, di cui il Pnrr fornisce molti particolari, è orientata all’efficienza organizzativa integrata dal reclutamento di nuove risorse umane, alla semplificazione dei procedimenti giudiziari e alla loro velocizzazione. Si tende quindi ad accorciare tempi e carico dei giudizi, senza affrontare nodi importanti che pesano sull’economia. In particolare, non si prevedono termini brevi per completare le procedure esecutive e i fallimenti, fenomeni che penalizzano l’offerta di credito; non si avanza verso la separazione delle carriere dei magistrati e sulla loro specializzazione nelle materie economiche; né si rafforzano i meccanismi di responsabilizzazione dei giudici per il loro operato e per il rispetto dei termini.
In materia di lavoro, l’elemento nuovo sta nell’investimento nella formazione per migliorare l’occupabilità del lavoratore e nel potenziamento dell’assistenza alla donna lavoratrice. Le altre misure sono una riedizione degli intenti di migliorare le politiche attive d’inserimento nel lavoro e i Centri per l’impiego, politiche che hanno prodotto finora scarsi risultati. Nessuno progresso nel bilanciare il rafforzamento dell’assistenza al lavoro con misure per ottenere più flessibilità nel suo impiego e maggiore collegamento tra retribuzione e produttività.
Grandi assenti tra le riforme sono, invece, le più importanti per la crescita, quali l’intensificazione della concorrenza, che è affidata solo alla digitalizzazione senza considerare che essa rafforza i comportamenti oligopolistici delle piattaforme, le riforme istituzionali, e quelle costituzionali del titolo V e degli organi legislativi. A giustificarne l’assenza si potrebbe sostenere che queste sono così profonde da richiedere una ben solida maggioranza, in politica e nel Paese, che purtroppo manca. Ma se questa è la costante del governare in Italia, sarebbe già un passo in avanti riuscire ad attuare quanto programmato superando la grande mina che mette a rischio ogni programma, ovvero la perenne instabilità dei governi italiani e la discontinuità delle politiche.