Cosa sta facendo Vladimir Putin per limitare le ambizioni di Alexandr Lukashenko, che non vuole cedere le redini del potere, e per accreditarsi contemporaneamente, verso l’Europa e la nuova amministrazione di Washington, come promotore di riforme democratiche ed economiche di stampo occidentale. L’analisi di Giancarlo Elia Valori
Nel lontano 1991, mentre la crisi del sistema sovietico portava alla disgregazione di quella galassia di nazioni che, sotto la sigla dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche rappresentava la seconda potenza mondiale sotto il profilo politico, militare ed economico, per frenare la spinta centrifuga innescata dalla dichiarazione d’indipendenza dell’Ucraina del primo dicembre di quell’anno, la Russia promosse e ottenne la costituzione della “Comunità degli Stati Indipendenti” (Csi).
L’8 dicembre ’91 aderirono alla Csi tutte le ex repubbliche sovietiche, con l’eccezione dell’ormai indipendente Ucraina e degli Stati Baltici, questi ultimi assorbiti nell’Urss nel settembre 1939 grazie al patto Molotov-Ribbentrop e che da allora si erano sempre considerati “occupati” militarmente dai sovietici.
Oggi la Comunità degli Stati Indipendenti, dopo la defezione della Georgia e di altri statarelli del Caucaso, conta oltre alla Russia, su altri otto membri (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia , Tajikistan, Uzbekistan e Bielorussia).
Uno sguardo alla carta geografica dimostra che Mosca si è posta fisicamente al centro di uno scacchiere nel quale gli stati aderenti alla Csi giocano un ruolo fondamentale non solo come area di libero scambio che copre un mercato unico di oltre 180 milioni di abitanti, ma anche un’importante area di sicurezza collettiva che garantisce alla Russia – che psicologicamente non si è mai ripresa dall’aggressione nazista del 1941 – una “buffer zone”, un’area cuscinetto tutt’intorno al suo territorio, molto importante sotto il profilo militare (a maggior ragione dopo il “tradimento” dell’Ucraina che, schierandosi militarmente con la Nato nei 2014, ha contribuito ad alimentare la paranoia del Cremlino sulla sicurezza delle frontiere).
È in questo contesto politico e “psico-politico” che è nato e si è sviluppato il “rapporto speciale “tra Russia e Bielorussia, un rapporto che da qualche tempo mostra incrinature sempre più vistose.
La Bielorussa è una repubblica presidenziale governata dal 1994 dal “presidente-dittatore” Alexandr Lukashenko. Eletto e rieletto in continuazione negli ultimi 25 dopo tornate elettorali guardate con sospetto da tutte le cancellerie occidentali, Lukashenko è stato tollerato con fastidio più o meno manifesto dal Cremlino, interessato a mantenere comunque in piedi un rapporto privilegiato e vantaggioso sul piano economico e militare, anche di fronte alla durezza con la quale il presidente bielorusso tenta da anni di tenere sotto un controllo di ferro l’opposizione politica nel proprio Paese con strumenti che appaiono eccessivi anche ai non certo liberali esponenti del Cremlino.
La goccia che minaccia di far traboccare il vaso della pazienza di Vladimir Putin nei confronti del suo collega bielorusso è stata la sue ennesima rielezione nell’agosto del 2020 alla presidenza della repubblica con percentuali che agli occhi di tutto l’Occidente, ma anche della Russia, sono parse frutto di spudorati brogli elettorali.
Le elezioni dell’agosto dello scorso anno hanno messo il Cremlino in forte imbarazzo.
Da un lato, continuare a sostenere il governo screditato di Lukashenko diminuisce la credibilità democratica del governo di Mosca agli occhi non solo dell’Europa e degli Stati Uniti ma anche di quelli degli alleati più moderati della Csi e rischia, al contempo, di alienargli il rispetto e il sostegno della popolazione filorussa della repubblica bielorussa che chiede più democrazia nel proprio Paese senza intaccare i legami di amicizia con Mosca.
Dall’altro lato, ai piani alti del Cremlino si è fatta strada la preoccupazione che, sostenendo troppo apertamente le ragioni della rivolta popolare contro Lukashenko e la richiesta di maggior democrazia in Bielorussia, si potrebbe trasformare la vicina repubblica in un simbolo per chi in Russia chiede un analogo ampliamento delle regole democratiche.
Il furbo Lukashenko che, prima delle elezioni dell’agosto 2020 aveva mostrato segni di insofferenza verso la politica di Vladimir Putin – secondo fonti accreditate i due si detestano – arrivando poche settimane prima del voto a ordinare l’arresto di 33 “mercenari” russi accusati di essere parte di un complotto del Cremlino per sabotare la sua ennesima rielezione, messo in difficoltà dai disordini interni e dalla reazione internazionale ai suoi metodi di governo autoritari, ha fatto marcia indietro nei confronti della Russia.
Dapprima Minsk ha concesso a Mosca l’esclusiva sull’uso dei porti russi per le esportazioni di petrolio bielorusso, una richiesta alla quale Lukashenko aveva resistito per anni; dopo ha acconsentito allo stazionamento sul proprio territorio di contingenti militari della Guardia Nazionale russa; infine, lo scorso 10 gennaio, il presidente bielorusso ha pubblicamente chiesto “l’abbattimento di qualsiasi ostacolo… alla maggiore integrazione tra Russia e Bielorussia”.
Nonostante le mosse, sempre più preoccupate, dell’autocrate di Minsk a Mosca – di fronte alla scelta tra sostenere il regime di Minsk e tentare di liberarsi dello scomodo vicino con un golpe- si sarebbe fatta strada una terza opzione che potrebbe salvaguardare la stabilità di un Paese, come la Bielorussia, che Mosca considera essenziale non solo sotto il profilo economico, ma soprattutto sotto quello militare nella sua qualità di fondamento base della “profondità strategica” assicurata dalla Bielorussia ai confini russi nella sua importante veste di “Stato cuscinetto” a salvaguardia della sicurezza delle frontiere occidentali della “madre Russia”.
La terza opzione è contenuta in due documenti fatti filtrare dal Cremlino alla fine dello scorso anno e pubblicati dal sito investigativo russo The Insider.
Il primo documento è intitolato “Strategia d’intervento operativo nella Repubblica bielorussa” ed è stato elaborato nel settembre del 2020, quando la reputazione democratica di Lukashenko dopo gli evidenti brogli elettorali e la dura repressione delle proteste popolari conseguenti era ai minimi termini.
Gli autori del testo parlano della necessità di cambiare la costituzione della Bielorussia anche attraverso” la penetrazione di tutti i partiti e le organizzazioni di opposizione” al regime “per favorire la formazione di nuove forze politiche che promuovano la riforma delle istituzioni”, anche attraverso un’opera di propaganda con l’uso di moderni canali di comunicazione come Telegram e Youtube.
Lo scopo di questa operazione sarebbe duplice. Trasformare in senso parlamentare la repubblica presidenziale bielorussa e far crescere il consenso verso l’alleato russo.
Il secondo documento elaborato dagli strateghi del Cremlino e fatto abilmente filtrare a “The Insider” parla della fondazione in Bielorussia di un nuovo partito politico chiamato “Il Diritto del Popolo”, che promuova i cambiamenti della costituzione in senso parlamentare e riforme sociali ed economiche che riscuotano il consenso popolare.
La creazione di questo nuovo partito non è stata ancora pubblicamente annunciata, ma dal suo programma si evince che il Cremlino spera di dirottare il consenso popolare nella vicina repubblica verso una transizione parlamentare e democratica del Paese, sperando, come effetto collaterale, di far scemare le proteste per i brogli elettorali alle ultime elezioni.
Nei programmi del nuovo partito è previsto che, anche se Lukashenko almeno in una prima fase rimarrà al suo posto per consentirgli di salvare la faccia con una dignitosa uscita di scena, egli verrà privato della quasi totalità dei suoi attuali poteri esecutivi, essendo le sue future funzioni ridotte a quelle di rappresentanza di un “normale” presidente di un repubblica parlamentare.
Inoltre il programma del nuovo partito filo-russo prevede piani di ampia privatizzazione del settore pubblico bielorusso, “lo smantellamento della censura” e il “rispetto della libertà e della dignità dell’individuo”.
Le prime reazioni alla pubblicazione di questi due documenti, con i quali il Cremlino sembra voler dimostrare non soltanto un ovvio interesse alla stabilità della Bielorussia ma anche una inaspettata (almeno per noi occidentali) attenzione alle regole democratiche e al rispetto dei diritti umani, ha suscitato reazioni molto positive nel mondo del bussiness russo evidentemente molto interessato a una sua più profonda penetrazione in un Paese che ha un settore industriale ben sviluppato, che esporta una significativa quantità di beni verso l’Europa oltreché verso la Russia, possiede due eccellenti grandi raffinerie di petrolio ed è all’avanguardia nel campo dell’informatica e dei servizi It.
Insomma, in potenza, un buon colpo geopolitico per Vladimir Putin e per il suo governo: limitare e frustrare le ambizioni di un autocrate che non vuole cedere le redini del potere e contemporaneamente accreditarsi, verso l’Europa e la nuova amministrazione di Washington, come promotore di riforme democratiche ed economiche di stampo occidentale.
Il tutto salvaguardando il ruolo della Bielorussia come “buffer zone”, come stato cuscinetto nei confronti di una Nato che, seppure depotenziata, resta agli occhi del Cremlino un avversario strategico.