Il Piano Nazionale di ripresa e resilienza, il cui testo definitivo dovrà essere presentato a Bruxelles ad aprile, per rispondere agli indirizzi e agli orientamenti fissati dalla Commissione Ue, necessita dell’introduzione di una seria riforma della giustizia penale e della giustizia civile nel Paese. Altro settore da rivedere, per superare l’italico assistenzialismo di fondo, quello del lavoro. L’analisi di Luigi Tivelli
Dopo una serie di faticosi e confusi lavori preparatori che già erano cominciati con la commissione Colao poi con la semi inutile e stucchevole e lunga sfilata degli Stati Generali, finalmente si arriva alla prima bozza del Piano Nazionale di ripresa e resilienza che viene presentata il 7 dicembre 2020 dopo essere stata elaborata non si sa sulla base di quale apporti nelle più o meno segrete stanze di Palazzo Chigi.
D’altronde questo rientra nella già segnalata tendenza del premier Giuseppe Conte a fare della Presidenza del Consiglio la centrale di tutti i poteri e ad accorpare a essa anche quei poteri che ad esempio nei governi precedenti appartenevano al ministero dell’Economia.
La bozza trova un’accoglienza molto fredda e viene considerata come poco soddisfacente e limitata dagli addetti ai lavori e dai politici più accorti. Soprattutto serve tener conto di quello che deve essere secondo la Commissione europea un criterio metodologico fondamentale del NextGenerationEu: lo stretto intreccio fra il piano delle riforme e il piano degli investimenti. La Commissione europea infatti non regala denaro: lo mette a disposizione solo per progetti legati a riforme che impediscano al Paese di vanificare la spesa in un fuoco di paglia.
Per fare un esempio nel campo della giustizia, il governo deve decidere se punta realmente a rivedere il sistema e i tempi della giustizia oppure se pensa solo ad assumere 16.000 dipendenti a tempo pieno nei voti che ne possono derivare. Se passiamo invece al campo del lavoro il governo deve scegliere fra la difesa dell’attuale sistema pubblico dei vetusti centri pubblici dell’impiego, o dei navigator in scadenza di contratto e del reddito di cittadinanza senza avvio al lavoro, oppure puntare a nuove credibili politiche del lavoro, tramite nuovi percorsi di formazione e reinserimento dei disoccupati, compatibili con la realtà del mercato del lavoro.
Erano questi, oltre ad altri aspetti relativi ai singoli blocchi di spesa di investimento i limiti della bozza di Piano del 7 Dicembre che inoltre aveva prodotto un assemblaggio spesso casuale e incoerente tra i diversi flussi di spese di investimento o di incentivazione. E bisogna ammettere che va ascritto a merito di Matteo Renzi di aver posto per primo sin dal 9 Dicembre la questione dei limiti e dell’inadeguatezza della bozza di Piano, nel corso di un intervento in Senato.
A dire il vero neanche dalle parti del Pd non è che il Piano scritto dalle segrete stanze di Palazzo Chigi (anche perché i 5 Stelle tendono sempre a preferire il premier Conte come garante) fosse molto apprezzato. È così che dopo le solite esitazioni e i rinvii che hanno fatto parte un po’ dello stile del nostro premier, nella consapevolezza che Bruxelles è molto più vicina a Roma di quanto qualcuno creda e che Bruxelles ci osserva, il premier ha dovuto decidere di affidare la stesura di un nuovo Piano a un terzetto guidato dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, affiancato dal ministro degli Affari Europei Enzo Amendola e dal ministro per la Coesione territoriale Beppe Provenzano, accettando una volta tanto che un Piano di tale rilevanza si scrivesse non a Palazzo Chigi, ma a Via XX Settembre.
Quel po’ di valore aggiunto del nuovo Piano, che sarà approvato poi la notte del 13 Gennaio 2021 da Consiglio dei ministri, è che si basa su una più stretta congiunzione fra lineamenti di politiche e di riforme e politiche di investimenti, anche perché è questo quello che la Commissione Ue chiede prima di erogare pian piano i bonifici semestrali. Anche se secondo alcuni critici, a cominciare dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi, in esso ancora manca una visione, “il senso di quale Paese vogliamo costruire”.
La questione dell’intreccio fra piani di riforme e piani di investimento vale sin dalla prima valutazione del piano, il cui testo definitivo dovrà essere presentato a Bruxelles ad aprile, sia nel corso della sua attuazione e inciderà sulla concreta fattibilità e progressiva finanziabilità del Piano Nazionale di ripresa e resilienza. Dovrà quindi cambiare di molto anche lo stile di governo da parte dei singoli ministri.
Questo riguarda in primo luogo il ministro Guardasigilli visto il ruolo che da Bruxelles si attribuisce a una seria riforma della giustizia penale e della giustizia civile per l’Italia, non è che ci si potrà certo adagiare sulla prevista assunzione di 16.000 nuovi operatori della giustizia. Quanto alla giustizia penale, che oltre ad incidere su diritti fondamentali dei cittadini, incide sulla vita economica e sociale e spesso anche sul destino delle imprese, il testo in esame in Parlamento non è certo sufficiente per vari aspetti e tanto più non lo è quanto all’accelerazione dei tempi dei processi, che è un aspetto cruciale. P
er ciò che riguarda la giustizia civile, si tratta di una riforma cui gli osservatori di Bruxelles attribuiscono un peso rilevante perlomeno quale quello della riforma della Pubblica amministrazione. Le condizioni in atto della giustizia civile e soprattutto il gioco dei tempi nei diversi gradi di giudizio incidono gravemente e pesantemente non solo sui diritti dei cittadini ma sulla competitività del sistema economico, sulla certezza del diritto, e sulla stessa possibilità di fare impresa in condizioni ragionevoli. È pertanto per un verso necessario che questa riforma sia elaborata e implementata per tempo, per altro verso che risponda agli indirizzi e agli orientamenti fissati dalla Commissione Ue.
Per ciò che concerne un altro settore, ad esempio se rimanesse al ministero del Lavoro la 5 Stelle Nunzia Catalfo, dovrebbe mettere un punto fermo sulla questione del reddito di cittadinanza e dei Navigator che non avviano praticamente nessuno al lavoro e dedicarsi a implementare e attuare vere politiche attive del lavoro.
Occorre infatti garantire, come spiega magistralmente Paolo Savona nel suo ultimo libro “Illuminismo economico” (Rubbettino), che si dia seguito alla nuova politica fiscale varata dall’Ue con il Recovery Fund, superando finalmente l’italico vizio di fondo dell’assistenzialismo, in modo tale che finalmente le abbondanti risorse disponibili si indirizzino verso gli investimenti e non vadano invece spese in assistenza generalizzata.