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Come usciranno le imprese dalla tempesta? La proposta di Zecchini

In questo momento l’attenzione è concentrata più sulle difficoltà del breve periodo che sul rilancio produttivo post-pandemia, mentre i margini d’intervento della finanza pubblica sembrano prossimi al limite di sostenibilità. Ecco su cosa puntare secondo Salvatore Zecchini

La crisi di governo e i ritardi nella vaccinazione della popolazione aggiungono nuove difficoltà alle imprese italiane, già provate da quasi un anno di restrizioni, crollo della domanda, nuovi costi per la prevenzione dei contagi e nuovi vincoli, sullo sfondo di una caduta dell’attività economica su scala nazionale. La ripresa economica è in stallo nel quarto trimestre del 2020, dopo il rimbalzo nel terzo, le esportazioni nonostante la buona tenuta nella seconda parte dell’anno non sono ancora ritornate ai livelli del 2019, e così è per il fatturato delle imprese industriali.

Indicatori ancor più negativi si riscontrano in diversi comparti dei servizi, che sono quelli a maggior assorbimento di forze di lavoro. I provvedimenti presi dal governo per sollecitare la ripresa tardano a far sentire i loro effetti perché manca una buona parte delle misure attuative. Se si considerano quelle di maggior rilevanza per le imprese, costituite dai decreti Rilancio, Semplificazioni ed Agosto 2020, solo il 41% è stato adottato.

Una parte ragguardevole dell’economia sembra, inoltre, ingessata da misure tampone dirette a contenere gli effetti devastanti della recessione sull’occupazione e sulla sopravvivenza delle imprese colpite dai blocchi e dalla recessione. Le restrizioni sui licenziamenti si stanno configurando sempre più come un imponibile di manodopera dalla sorte incerta alla fine del blocco. Quelle sui fallimenti e procedure esecutive appaiono come una scommessa che le imprese in difficoltà possano riprendersi all’uscita dalla crisi. In altri termini, vi è attualmente una disoccupazione nascosta ed un tener in vita imprese destinate a uscire dal mercato.

La fotografia di questa realtà si trae da due indagini condotte dall’Istat in due grandi campioni rappresentativi di imprese, una tra giugno ed ottobre e l’altra tra ottobre e novembre dello scorso anno. Per cogliere le differenze con cui le diverse tipologie d’impresa hanno vissuto questa crisi basta fermare l’attenzione su quattro dimensioni: a) la dimensione aziendale, b) il settore d’attività, c) la reazione alla crisi, e d) l’area geografica di operatività.

In termini di dimensione, è ancora una volta confermato dalla realtà che le imprese di minori dimensioni sono quelle che hanno più sofferto per il calo del fatturato e per la pochezza dei mezzi con cui assorbire gli effetti negativi su occupazione e sostenibilità finanziaria. Fanno eccezione le piccole imprese innovative, che hanno saputo cogliere lo spostamento della domanda su prodotti essenziali per superare la crisi sanitaria o per proseguire l’attività attraverso i mezzi digitali. Nella maggioranza delle minori si ritrovano molti dei presupposti che portano alla fuoriuscita dal mercato, o al temporaneo galleggiamento. Man mano che si sale nella scala dimensionale la situazione migliora, ma non si può trascurare che le minori in crisi rappresentano il 29% delle imprese del campione.

Tra i settori d’attività, il 69% delle imprese denuncia una caduta del fatturato, che assume intensità molto differenti tra comparti produttivi. I cali più frequenti sono compresi nella fascia tra 10 e 50%, mentre quelli ancor più elevati interessano una consistente minoranza (15,5%). Tra i comparti, le cadute più intense (più del 50%) si registrano nei produttori di beni di investimento, di consumo e di servizi ricettivi, ristorazione, professionali e alla persona, con diminuzioni appena più basse tra gli operatori del commercio. Solo un 20% di imprese denuncia fatturato stabile e circa il 10% in crescita, principalmente nel farmaceutico, beni intermedi e costruzioni.

Come hanno reagito di fronte all’eccezionale crisi? Emerge un evidente contrasto tra una minoranza numerica di imprese (36%), che hanno modificato i loro modi di operare e le strategie, e fornisce il maggior apporto alla creazione di valore aggiunto (71%) ed occupazione (61%) e una maggioranza numerica (64%) che è invece minoritaria nei due campi. Nel secondo gruppo, definito dall’Istat “statico”, rientrano sia quelle che sono poco colpite dalla crisi e quindi non necessitano cambiamenti (35,5%), sia quelle più colpite che non hanno impostato una chiara rotta (28,6%). Queste ultime sono le più a rischio di andare fuori mercato, trattandosi in prevalenza di aziende piccole, operanti su mercati locali, che assorbono il 15% dell’occupazione ed appartengono tanto al settore dei servizi più in crisi (trasporti, noleggio, servizi alla persona) quanto a quello industriale (attività estrattive, tessile-abbigliamento, cuoio-pelli, industria estrattiva).

In altri comparti del manifatturiero e dei servizi prevalgono le imprese che si sono adeguate alla situazione, mettendo in atto strategie di riorganizzazione, riconversione produttiva, innovazione di processi e/o prodotti ed espansione degli investimenti secondo nuovi modelli di business, che si avvalgono sempre più degli strumenti digitali. In questo gruppo si trovano, in particolare, le medie imprese oltre che le grandi, accomunate dall’operare in settori dinamici, più pronte ad accelerare il cammino verso un uso intensivo delle tecniche digitali ed impegnate anche nell’innalzare il livello di formazione del loro personale.

Come spiegare i fattori della diversità di comportamento tra imprese dinamiche e quelle statiche in difficoltà. Indubbiamente per queste ultime un ruolo importante hanno l’operare in settori maggiormente bloccati dalle restrizioni e la modestia dei mezzi a disposizione, ma nelle micro e piccole imprese pesano altresì le limitate capacità del management, che spesso si identifica con la proprietà dell’azienda, il cosiddetto familismo d’impresa. Lo si può desumere dagli strumenti utilizzati per affrontare la crisi. Lo strumento più usato è dato dalla Cassa integrazione o dal Fondo di integrazione, mentre si è fatto scarso ricorso agli altri modi di gestione del personale in un periodo di bassa domanda e restrizioni. Anche le grandi imprese, specialmente nel settore industriale, hanno usato la CIG, tuttavia questa è parte di una riorganizzazione degli input di lavoro in termini di giornate e ore, con l’applicazione, laddove possibile, del lavoro a distanza.

L’accelerazione della transizione alla digitalizzazione ha caratterizzato le strategie di gran parte della media e grande impresa, in specie per gestire la pianificazione delle risorse e la gestione della catena di fornitori e dei rapporti con i clienti. La digitalizzazione si è estesa alla comunicazione sia all’interno dell’azienda che all’esterno e ha toccato i canali di commercializzazione dei prodotti.

Rispetto al passato è triplicata l’incidenza delle imprese che hanno investito nei servizi digitali per la comunicazione e nel migliorare i loro siti web, benché risulti ancora bassa (21,6%) nel confronto con i paesi europei avanzati. Analogamente, è raddoppiata la quota di quelle che vendono sul web i loro prodotti, pur rimanendo comparativamente modesta (17,4%) perfino in tempi di restrizioni al commercio in presenza, fenomeno che l’Istat attribuisce al modello tradizionale di vendita ai grossisti-distributori, o alla preferenza del consumatore per il rapporto diretto con il commerciante al dettaglio.

Naturalmente l’avanzamento rapido nella digitalizzazione è strettamente legato alla disponibilità di reti di connessione adeguate, condizione che mette in evidenza il ruolo cruciale del soggetto pubblico negli investimenti infrastrutturali di nuova generazione. Nella fase corrente di limitazioni anti-contagio lo Stato ha fornito diversi aiuti, che hanno incontrato grande favore tra le imprese. Più di un terzo delle imprese in rassegna si è avvalso delle agevolazioni sul credito bancario, delle garanzie pubbliche sui prestiti e dei finanziamenti pubblici, con particolare frequenza per quelle che hanno subito i maggiori crolli di fatturato. Molto minore la disponibilità ad accettare apporti di capitale al patrimonio provenienti da fonti esterne all’impresa, specialmente tra quelle di minori dimensioni. Solo quelle medie e le grandi appaiono aperte a investimenti da fondi di private equity o da nuovi soci, segno della difficoltà di ridurre la strutturale vulnerabilità finanziaria delle imprese piccole.

Il quadro complessivo che emerge mostra, quindi, un’economia che per riprendersi conta soprattutto su un gruppo minoritario di imprese “dinamiche”, che si sta impegnando a superare le difficoltà create dalla pandemia e guarda alla quarta rivoluzione industriale come la chiave del successo. Nondimeno, al pari delle altre, nutre dubbi sulla consistenza della ripresa della domanda sia interna, sia estera nell’anno in corso. A queste preoccupazioni nella maggioranza delle piccole e microimprese si sommano quelle per una crisi di liquidità, con conseguenti rischi di sopravvivenza, che coinvolgono ben un milione e 250 mila lavoratori. Quelle a maggior rischio si concentrano particolarmente nell’Italia Centrale e di seguito nel Mezzogiorno.

La richiesta di aiuti pubblici è di conseguenza corale nel mondo del imprese: secondo il sondaggio Istat quelli maggiormente richiesti riguardano nell’ordine il differimento dei pagamenti fiscali, le fonti di finanziamento e la formazione del lavoro. Si chiede di più mentre si ignora l’esistenza già di diversi sostegni: ad esempio, oltre il 40% di imprese ancora non conosce gli incentivi per la digitalizzazione ed internazionalizzazione.

L’attenzione è concentrata più sulle difficoltà del breve periodo che sul rilancio produttivo post-pandemia, mentre i margini d’intervento della finanza pubblica sembrano prossimi al limite di sostenibilità. Un sostegno essenziale potrebbe derivare da un’azione decisa per migliorare le condizioni di contesto per fare impresa, ovvero serie riforme a basso costo. Ma è fattibile in un Paese con grandi squilibri e privo di un solido consenso politico?



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