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Nel voto libico la notizia non sono i vincitori ma gli sconfitti. Rischio caos

Vincono due outsider il ballottaggio per presidenza e governo, ma il rischio per la Libia resta l’ingovernabilità. Il peso degli sconfitti è alto, il contraccolpo sul quadro internazionale potrebbe farsi sentire. Possibile lo smottamento dell’intero processo di stabilizzazione e il raffinamento dell’incarico a Serraj? Uno scenario

La Libia ha votato per una nuova autorità esecutiva che dovrà guidare il paese ad interim fino alle elezioni convocate a dicembre, e il risultato non è senza sorprese. Ha vinto la lista che prevede Mohammed Al Manfi alla guida del nuovo Consiglio di presidenza e Abdul Hamid Mohammed Dbeiba come premier. Il primo è un esponente islamista della Cirenaica, l’altro un businessman di Misurata (città delle Tripolitania). Ad attirare l’attenzione però non sono tanto i vincitori – la cui visione politico-ideologica difficilmente sarà potabile per diversi settori del paese, a cominciare dall’Est – quanto gli sconfitti.

Al ballottaggio infatti la lista Manfi-Dbeida ha battuto quella guidata da Agila Saleh e Fathi Bashaga, due pezzi da novanta: uno, presidente del parlamento HoR doveva diventare capo del Consiglio Presidenziale; l’altro, da ministro degli Interni passare a premier. Era l’allineamento che fin dall’inizio del processo di stabilizzazione e dialogo era stato sostenuto più o meno informalmente dall’Onu e da alcune cancellerie anche europee. Ma si sapeva che aveva molti problemi.

Il risultato è stato che al ballottaggio finale l’accoppiata Saleh-Bashaga – composta in modo pragmatico, c’è chi dice “opportunistico”, tra due rivali Est-Ovest – ha magnetizzato contro di sé tutte le voci critiche, che seppure distanti tra loro si sono raggruppate e hanno votato in blocco gli altri. Voti sono arrivati dalle scremature delle altre liste e da coloro che si sono ritirati nel corso del processo di candidatura/selezione.

I vincitori sono molto più deboli degli sconfitti. Hanno poco seguito, hanno questioni irrisolte, hanno da gestire il peso delle loro visioni anche sul quadro internazionale che si muove sopra e attorno alla Libia (difficile per esempio che Emirati Arabi, Egitto e Russia accettino che il paese finisca in mano a un’autorità considerata islamista, dopo che questi paesi, sostenitori del capo miliziano ribelle Khalifa Haftar, hanno da sempre raccontato il loro coinvolgimento come un moto contro gli islamisti volutamente sovrapposti e mescolati ai terroristi).

Prevedere quello che può succedere è complesso, analisti e osservatori concordano che il risultato dia poche speranze, a causa del debole consenso dietro ai vincitori, e il rischio più pessimistico è che si torni a combattere, visto che in Libia spesso le questioni politiche scivolano nello scontro armato. Uno scenario possibile sta nello smottamento dell’intero processo di dialogo: previsione estrema ma concorde con un quadro che ha visto molti stakeholder libici non partecipare al rush finale.

In questo caso l’Onu avrebbe la possibilità di tornare a giocare la carta di Fayez al Serraj, attualmente capo del consiglio presidenziale e del governo, come traghettatore alla guida di un governo di salvezza nazionale che miri a compattare il paese e dopo aver ottenuto una (in)stabile unità andare alle elezioni già convocate per dicembre. In questo caso sarebbe possibile che Serraj lasciasse l’incarico di primo ministro per condividere l’autorità istituzionale.



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