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Amava le idee, inseguiva le eresie. Attualità di Tatarella

La Destra di governo non c’è più, si è come dileguata, assopita, ritirata, ma Pinuccio Tatarella è rimasto. È qui con noi a ricordarci che la politica è un’arte nobile e faticosa, non esente da amarezze e compromessi talvolta amari purché finalizzati al bene del Paese. Che “ministro dell’Armonia” sarebbe stato! Il ricordo personale di Gennaro Malgieri

Non so quale arcano destino abbia disposto che il ventiduesimo anniversario della morte di Pinuccio Tatarella coincidesse con una delle più interessanti e coinvolgenti operazioni politiche tendente a rimettere ordine in un Paese squassato da crisi convergenti o sovrapposte.

Mi sono chiesto da che parte sarebbe stato nel provare dare all’Italia un governo composito, includente, largo abbastanza da farvi convergere tutte o quasi le forze politiche rifiutando logiche egemoniche, ma lavorando affinché il Paese si riconoscesse nel “suo” esecutivo, sia pure per il periodo necessario a risanarlo. La riposta non è tardata a venire: Pinuccio sarebbe stato, con la sua parte politica, la sua Destra nazionale, plurale e diffusa, con le forze impegnate nel progetto di “salvezza repubblicana”.

Conoscendolo mi sarebbe sembrato strano che proprio lui, “ministro dell’Armonia” per antonomasia, non si fosse dato da fare per amalgamare le componenti vitali della politica italiana e metterle a disposizione della comunità, travolgendo etichette, appartenenze e pregiudizi. Anche per questo, oggi, ci manca terribilmente. E manca a quella Destra di governo che si è eclissata nei labirinti dell’impoliticità come per trovare riparo alle responsabilità alle quali avrebbe dovuto far fronte.

La Destra di governo non c’è più, infatti, si è come dileguata, assopita, ritirata, ma Tatarella è rimasto. È qui con noi a ricordarci che la politica è un’arte nobile e faticosa, non esente da amarezze e compromessi talvolta amari purché finalizzati al bene del Paese. Che “ministro dell’Armonia” sarebbe stato! La sua vocazione a smussare gli angoli, per dirimere le controversie, per far convergere intorno a un interesse reale le contrapposte posizioni, nonostante il suo carattere non proprio, per altri versi, accomodante, si sarebbe espressa al meglio.

Questa caratteristica della sua personalità politica la doveva a una concezione della politica come conciliazione degli opposti, piuttosto che a una pratica “muscolare”, quasi che le scelte e le decisioni riguardanti la comunità debbano necessariamente e insanabilmente dividere.

Certo, gli piaceva vincere, ma non a costo di umiliare gli avversari, un po’ per l’innata umanità che lo proteggeva dall’arroganza; un po’ per l’intelligenza che gli faceva riconoscere il limite che non poteva valicare. E da politico raffinato qual era cercava, quindi, di prevalere con l’intelligenza, esercitando l’arte della persuasione. Si reputava un elemento di equilibrio in stridente contrasto con la sua esuberante personalità che, senza nessun riguardo ai ruoli che rivestiva, esprimeva in maniera spontanea, assolutamente fuori dai canoni della cosiddetta rispettabilità borghese. Pinuccio era un ragazzo di sessant’anni, insomma, che viveva la sua stagione tra entusiasmi e malinconie, con il cuore incline alle passioni e la mente aperta a recepire tutto ciò che di culturalmente attraente gli capitava a tiro. Fedele alle amicizie, lo irritavano i tradimenti. E la superficialità, le adulazioni, le meschinità lo deprimevano.

Non sbiadiscono, con il passare del tempo le immagini di quei giorni di fine Novantatré quando cominciò a nascere il partito nuovo, quello che sarebbe stato Alleanza nazionale. L’attivismo di Pinuccio era febbrile; l’aria politica si andava arricchendo di odori nuovi; le parole che si coglievano erano nel senso di novità ancora imprecisate. Ci ritrovammo con Pinuccio, in una mattina d’autunno, nella sede del Sindacato libero scrittori di Roma, ospiti dell’indimenticabile Francesco Grisi, in poco più di trenta amici, meno uno che morì per strada mentre stava raggiungendoci: Umberto Moscato, giovane tra i più colti e promettenti che Tatarella aveva “pescato” nella covata montanelliana. E lì cominciammo a ragionare sul “nuovo” a Destra che non poteva essere come il “nuovo” a Sinistra.

Riunioni su riunioni, pensieri e parole che si confusero nei mesi successivi con emozioni e passioni. Tatarella era dappertutto. E noi con difficoltà riuscivamo a stargli dietro: il presidenzialismo, grande “mito” della sua vita, lo portava ovunque c’era gente disposta ad ascoltarlo. Fece anche un giornale: Repubblica presidenziale, tanto per evitare gli equivoci. La nuova Destra che andava prendendo forma assomigliava molto alle idee di Tatarella. E, certamente, ancor più sarebbe stata a lui affine se soltanto avesse avuto il tempo di reinventarla come “motore” del cambiamento del sistema.

Coerente con la sua visione dei mutamenti politici le idee, Tatarella riteneva che sbarazzarsi del vecchiume senza gettare via la spiritualità che aveva motivato intere generazioni nel darsi alla politica era la sola possibilità che la Destra avesse per contribuire a realizzare scenari sui quali proiettare modelli organizzativi e sperimentare innovazioni. Per quanto non lo desse a vedere in maniera plateale, a chi gli stava più vicino non sfuggiva, insomma, che la politica delle idee era il suo “gioco” preferito. Lo annoiavano mortalmente le discussioni attorno alla politica politicante, alle tattiche prive di strategia, al piccolo cabotaggio. E a tutto questo, quando non vi si poteva sottrarre, si dedicava con la gioiosa attitudine di chi si applica, con intelligenza e caparbietà, a raggiungere scopi immediati sapendo che questi non avrebbero comunque appagato la sua avidità di comprendere e in qualche modo di tentare percorsi inediti.

La politica era davvero una “guerra” di idee e lui voluttuosamente vi si immergeva. Ricordo che nel 1996, subito dopo la vittoria storica di Aznar in Spagna, che demolì il Partito socialista, riuscì ad organizzare a Bari, coinvolgendomi senza possibilità di replica, in meno di ventiquattr’ore, un convegno nel quale discutere delle prospettive del centrodestra in Europa, anticipando una tendenza che si sarebbe affermata nei mesi e negli anni successivi: la crisi delle socialdemocrazie e l’avvento di una nuova Destra.

Ma “giocando” con le idee, gli capitò di innamorarsi e diffondere il “contagio” anche negli ambienti a lui contigui, per il pensiero di don Luigi Sturzo e per la figura di Giuseppe Di Vittorio. Se al grande sindacalista comunista aveva sempre guardato con ammirazione perché suo compaesano, ma anche perché  aveva militato nelle file del sindacalismo rivoluzionario di Filippo Corridoni ed era stato fautore dell’intervento nella Prima guerra mondiale, fedele alla lezione di Georges Sorel, al sacerdote di Caltagirone si avvicinò affascinato dalle intuizioni di questi in merito alla crisi dei sistemi rappresentativi ed alle loro degenerazioni partitocratiche denunciate con grande coraggio intellettuale e politico agli inizi degli anni Cinquanta: lo stesso coraggio testimoniato nell’opporsi al fascismo fino a costringerlo all’esilio.

Amava le idee e s’innamorava delle eresie. Tatarella era un lievito, insomma, non soltanto della politica della Destra. Avversari autorevoli si confrontavano con lui spesso e volentieri non perché avesse capacità manovriere indispensabili nella vita parlamentare, e tutt’altro che disdicevoli (lasciamole alle anime belle queste facezie populiste), ma perché riuscivano a scorgere dietro le sue parole (e spesso anche nei suoi eloquenti silenzi) piani d’azione concreti improntati ad un essenziale e fattivo confronto che lasciava spazio alla mediazione. Il semipresidenzialismo che venne fuori dai lavori della Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D’Alema, porta indiscutibilmente la sua impronta. Lo fece digerire ai più riottosi, trovando nel leader post-comunista un interlocutore di  spessore culturale e dalla capacità si smarcarsi dallo stordimento dei pigri per i quali la politica dovrebbe essere sempre uguale a se stessa. Qualità che, non soltanto in quella fase politica, lo facevano discutere con Luciano Violante allora presidente della Camera, ma suo amico-avversario fin dai tempi della frequentazione della Facoltà di Giurisprudenza a Bari.

Il confronto lo eccitava, gli dava quasi un piacere fisico. Lo coglievo quando frettolosamente e disordinatamente impostavamo i numeri di Repubblica presidenziale o nei viaggi lungo la Penisola per diffondere la consapevolezza di una politica nuova, oltre i vecchi schemi. Su quel giornale, tra l’altro, Tatarella propose i temi della democrazia diretta con efficacia persuasiva, contribuendo ad avvicinare tanti a quella che per lui era una battaglia di principio; mentre su Puglia tradizione raccoglieva il meglio di una cultura meridionale che si voleva di retroguardia e che invece era viva e ricca di spunti modernissimi e su Centrodestra, invece, si esercitava in quella che possiamo definire una sorta di “profezia”, vale a dire la prefigurazione di un movimento capace di andare “oltre il Polo” che voleva dire sostanzialmente, “allargare la coalizione di centrodestra ai soggetti che, pur non volendo la vittoria della sinistra, non sono ancora impegnati con i partiti e i movimenti che oggi compongono lo schieramento moderato”. Parole del 1995.

Dopo di lui cadute in disuso, rimosse, forse rinnegate per seguire una politichetta senza respiro. Avventure culturali e politiche umiliate dall’ignavia. Avventure delle spirito che restano, comunque. Dopo oltre due decenni.


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