Paolo Isotta rimane nelle pagine e nei pensieri di chi lo ha apprezzato. Ha tolto il disturbo da gran signore quale era. E non ha scomodato neppure il più umile dei musicisti per farsi accompagnare al di là del fiume dell’oblio. Signore anche nella morte
Rapito come un vecchio saggio dalla terza delle Parche, figlia di Giove e Temi, l’incorruttibile Àtropo, deputata a tagliare il filo della vita, Paolo Isotta non avrà neppure per un attimo ceduto alla tentazione di appellarsi al Fato e chiedergli di rimanere ancora in vita. Il filo si è spezzato in un attimo. E se ne è andato. Aveva 70 anni. Un terzo dei quali li ha vissuti come un classico tra i classici, amando Virgilio e Dante, discutendo dell’esilio spirituale e civile con Ovidio, accarezzando le divinità latine e greche, progenitrici di quelle cristiane che non meno venerava.
È morto solo, nel sonno, senza ambasce, inconsapevole. Come un privilegiato a cui il Destino ha sottratto la manipolazione della carne e lo sconcio della scomposizione dei pensieri. Forse accompagnato da una musica che soltanto lui ha potuto sentire e capire nell’ultimo respiro prima di aprirsi all’eternità.
Figlio di un avvocato civilista, fin da adolescente frequentò la cultura europea e le radici che essa mise nel suo animo furono profonde al punto da determinare la scelta degli studi: la giurisprudenza, le lettere, la musica. Non fece né il giurista, né il professore di liceo, ma dopo aver studiato pianoforte con Vincenzo Vitale e composizione con Renato Parodi e Renato Dionisi, fu la musica che lo attrasse e divenne il maggior musicologo del nostro tempo, ma anche musicista “segreto”, non da palcoscenico. Nel 1971, ottenne una cattedra come professore straordinario al conservatorio di Reggio Calabria poi divenne ordinario a Torino e quindi a Napoli.
Nel 1994 detestando la volgarità, lasciò, coraggiosamente, l’insegnamento «per progressiva intolleranza verso gli allievi attuali». Nel gennaio 2019 il Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli lo decretò Professore Emerito. Nel 1974, venne assunto, su segnalazione di Mario Praz e di Piero Buscaroli cui fu legato da un lunghissimo sodalizio poi spezzatosi per motivi caratteriali, diciamo così, come critico musicale al Giornale appena fondato di Indro Montanelli. Sei anni dopo, 1980, passò al Corriere della sera dove, per le sue idee controcorrenti, in opposizione al pensiero unico di sinistra ingaggiò una dura battaglia con il si da ago e l’ala più estremista del giornale: la spuntò lui, pagando in amarezze anni durissimi coronati tuttavia dalla stima che guadagnava tra 8 lettori del il pubblico colto. La sua attività di critico cessò nel 2015.
Negli anni Ottanta diresse con Piero Buscaroli le collane Musica e Storia per Mondadori e La Musica per Rusconi.
Nella sua vasta vita da studioso troviamo innumerevoli saggi di storia della musica e musicologia, tra i quali I diamanti della corona (1974), primo libro in assoluto dedicato alle opere serie di Gioacchino Rossini, Il ventriloquo di Dio (1983), sull’influenza della musica in Thomas Mann, e poi numerosi volumi dedicati a musicisti ma anche alla letteratura in connessione con la musica e la vita artistica. Tra l’altro ha pubblicato nuove opere saggistiche su Verdi, Paisiello, Wagner (ricordo anche la memorabile introduzione, vero e proprio saggio, a Wagner Nietzsche e il mito sovrumanista di Giorgio Locchi nel 1982) la storia dei Conservatori napoletani (De Parthenopes musices disciplina. L’educazione musicale a Napoli dal Medio Evo ai giorni nostri, Napoli, 2018), Rocco Pagliara, Donizetti, Rossini, ancora Verdi, e I sentimenti degli animali in musica e letteratura; Il canto degli animali. I nostri fratelli e i loro sentimenti in musica e in poesia; La dotta lira. Ovidio e la musica, senza dimenticare il più originale dei suoi scritti: La virtù dell’elefante. La musica, i libri, gli amici e San Gennaro.
Nel 2013 Isotta pubblicò un articolo fortemente critico contro Daniel Harding e, indirettamente, contro Claudio Abbado (guai a chi si permetteva di sfiorare le sacre vesti dei numi tutelari di una certa sinistra. La conseguenza fu che Stéphane Lissner, sovrintendente della Scala di Milano lo dichiarò “persona non gradita”, alla faccia della libertà di pensiero e della retorica che ne insegue.
Due anni dopo, non certo tranquilli, 16 ottobre 2015, Isotta annunciava sulle colonne del Corriere la fine della sua collaborazione al giornale milanese: “Torno a essere un musicista e null’altro che questo. Col presente articolo si chiude la mia attività di critico musicale svolta per più di quarantadue anni”. Da allora si è dedicato prevalentemente alla saggistica con alcune incursioni nel giornalismo dove poteva esprimere liberamente il suo pensiero.
Paolo Isotta, nella sua ricca vita e nella sua feconda carriera, ha assecondato una sola passione: la ricerca della Bellezza. Attraverso la musica, la letteratura, l’arte, l’amicizia l’ha “afferrata” ed è diventata parte di se stesso. La sua esistenza lo testimonia ed i lacerti di essa che offre, senza pudore e con evidente voluttà (che non è un peccato se non per la meschina morale plebea), nelle sue “memorie” raccolte sotto il significativo titolo La virtù dell’elefante, sono esemplificazioni di uno spirito capace di ascendere alte vette come frequentare i bassifondi rimanendo se stesso, grazie a quell’idea di Bellezza che è capace di scovare ovunque. E le sordide perfidie cui pure ha dovuto sopportare nella sua vicenda professionale, non meno che nell’esistenza privata, Isotta è stato capace di volgerle a proprio vantaggio quasi sempre, forse, perché, come candidamente ammetteva, “protetto dal mantello di San Gennaro”.
E se non è Bellezza, nella forma più sublime, il miracolo di un martire, francamente non saprei che cos’è. Prodigiosa è comunque la vastità dei domini che Isotta ha attraversato e raccontato in questo singolare volume autobiografico, quasi che l’Angelo della Conoscenza lo abbia toccato fin nella culla dandogli il privilegio di inerpicarsi per le impervie strade della musica, della quale è stato certamente. Nel secondo dopoguerra in Italia il maggior esegeta, e su quelle letterarie ed estetiche in genere che hanno certamente contribuito a formare il suo carattere.
Tra i due poli eccelsi di Virgilio e di Wagner si è snodata la vita spirituale e quella materiale di Isotta. E le note biografiche che compongono il quadro d’assieme della sua personalità complessa sono anche i reperti di un’esistenza che neppure per un attimo è stata banale, vigorosamente interpretata secondo canoni che spesso e volentieri hanno fatto andare in bestia i padroni del pensiero, a cominciare da quelli della musica per i quali Isotta sarebbe dovuto finire nel fango, ridotto in miseria.
L’elefante ricorda tutto, anche la sua forza e, dunque, è in grado di reggere qualsiasi urto soprattutto se assistito da imperscrutabili potenze. Che Isotta abbia trovato l’energia per reagire alle volgarità contrapponendo ad esse un’idea rara (e classica) di Bellezza è quasi un mistero che il lettore non nessuno che non l’abbia ancora fatto mancherà di apprezzare leggendo le seicento pagine del libro, una sorta di grande romanzo storico nel quale il passaggio dall’umanità napoletana – semplice, gaia e tragica allo stesso tempo – ai ricordi familiari, alle esperienze intellettuali, agli incontri con alcuni dei grandi del nostro tempo e del tempo che è stato risulta talmente naturale da sembrare incredibile. Come la fede religiosa che si affaccia qua e là (splendida la difesa della liturgia) quasi per rammentarci che la gloria è polvere, nient’altro che polvere.
Paolo Isotta rimane nelle pagine e nei pensieri di chi lo ha apprezzato e voluto bene. Ha tolto il disturbo da gran signore quale era. E non ha scomodato neppure il più umile dei musicisti per farsi accompagnare al di là del fiume dell’oblio. Signore anche nella morte.