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La politica estera economica è la sfida del governo e degli anni Venti. Scrive il prof. Farese

Di Giovanni Farese

Ripristinare la fiducia dei mercati e ristabilire la reputazione del Paese nel mondo – come avvenne con forza e lungimiranza dopo la Seconda guerra mondiale – sono due facce della stessa medaglia. Sono obiettivi che il nome di Mario Draghi consente di centrare quasi all’istante. L’analisi di Giovanni Farese, professore di Storia dell’Economia all’Università Europea di Roma e Marshall Memorial Fellow del German Marshall Fund of the United States

Siamo finalmente alla fine una fase di incerta collocazione internazionale del paese. Da una parte c’era chi guardava alle nuove (vecchie) potenze riemergenti, come Cina e Russia e dall’altra chi puntava a ristabilire un prioritario, e in qualche modo esclusivo, rapporto con gli Stati Uniti. Dall’altra ancora, infine, chi pensava di estrarre valore negoziando di volta in volta senza vincoli precostituiti (come una sorta di “Global Italy” in tutto simile e in tutto diversa dalla “Global Britain” che qualcuno ha in mente). Il tutto mentre l’orizzonte europeo faticava, complice la crisi dei debiti sovrani, ad assumere i caratteri di una scelta irreversibile.

Poi sono venute la pandemia, la risposta “politica” dell’Europa, la crisi di governo. Il carattere “atlantista ed europeista” che si annuncia oggi come una delle caratteristiche di fondo del governo retto da Mario Draghi (qui il commento del prof. Pennisi), spazza via – come d’un colpo – queste ambiguità. Esse hanno avuto un costo elevato: solo qualche giorno fa, nel suo primo discorso sulla politica estera, il presidente Biden ha detto di aver già scambiato idee e punti di vista con i suoi alleati (i “closest friends”). Si badi all’ordine: Canada, Messico, Gran Bretagna, Germania, Francia, Nato, Giappone, Corea del Sud, Australia (Remarks by President Biden on America’s Place in the World, 4 febbraio 2021).

Mancava l’Italia. Ma essa ha oggi l’occasione di rilanciare non solo i rapporti atlantici ed europei, ma euro-atlantici nel loro insieme. La doppia aggettivazione va letta infatti in chiave evolutiva e prospettica, di coordinamento e di reciproco rafforzamento. Il dibattito sulla “autonomia strategica” dell’Europa o sul ruolo internazionale dell’euro – in certa misura necessari a un ribilanciamento in un mondo mutato non solo rispetto al 1945, ma anche rispetto al 1989 o al 2001 – mancano il punto: come cooperare, come rilanciare la cooperazione internazionale in un mondo in cui i blocchi regionali – utili se capaci di sviluppare i mercati interni e dunque la domanda (anche di export altrui) più che a formare aree commercialmente (e tecnologicamente) chiuse – saranno comunque, e per fortuna, permeabili. La “deglobalizzazione” non è la fine della globalizzazione. Si entra in una fase nuova, di lunga transizione.

Il tema per l’Italia non è soltanto politico o geopolitico, come del resto la collocazione geostrategica nel Mediterraneo e di ponte verso l’Africa, suggerisce (ancora) una volta di più. Ma anche economico e di politica estera economica. Nell’anno della pandemia gli investimenti diretti esteri in Italia sono crollati più che in Francia e in Germania (il crollo più forte è avvenuto in Gran Bretagna e in Italia: fonte Unctad). In investimenti privati tra il 2020 e il 2022 l’Italia perderà 140 miliardi, vale a dire più dell’aumento netto di investimenti pubblici del Next Generation EU fino al 2026 (fonte: Commissione europea e Corriere della Sera).

L’Italia ha rilievo internazionale in certa misura indipendentemente dalla politica estera che conduce, per l’export delle sue imprese e per il risparmio delle sue famiglie. Ma solo in certa misura. L’autorevolezza e la credibilità ritrovata della classe dirigente saranno perciò fondamentali per sostenere e sospingere quegli elementi di tenuta e di sviluppo di un sistema aperto di relazioni internazionali di cui il Paese ha un bisogno vitale, per i capitali di cui abbisogna (anche per il debito pubblico) e per gli sbocchi del suo export.

Ripristinare la fiducia dei mercati e ristabilire la reputazione del Paese nel mondo – come avvenne con forza e lungimiranza dopo la Seconda guerra mondiale – sono due facce della stessa medaglia. Sono obiettivi che il nome di Mario Draghi consente di centrare quasi all’istante: ma dovrebbero restare tali anche nel lungo termine, senza fare e disfare. Potremmo finalmente proiettarci con qualche speranza negli anni venti.

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