I problemi della giustizia civile hanno radici profonde e richiedono di essere affrontati con sofisticatezza teorica. I consigli di Massimo Balducci al neo ministro Cartabia
Sembra che il governo Draghi, tra le riforme cui dovrà metter mano, si sia impegnato ad affrontare i problemi della giustizia civile. La professoressa Cartabia, l’attuale guardasigilli, ha sicuramente le competenze di natura giuridica necessarie. I problemi della giustizia civile hanno radici profonde e richiedono di essere affrontati con sofisticatezza teorica. Accanto a questi problemi di largo respiro, esistono altri problemi, se vogliamo, di dettaglio che vedo raramente citati nel dibattito ma che potrebbero avere un impatto significativo sul funzionamento della macchina “giustizia civile”. Vediamo di fare in queste poche righe un censimento di questi elementi.
Il problema fondamentale della giustizia civile è rappresentato dalla lentezza dei procedimenti, lentezza non compatibile con i tempi dell’economia (di fatto rende impossibile forzare l’esecuzione di un contratto), tanto da scoraggiare investimenti nel nostro paese. Questa lentezza è dovuta sicuramente all’aumento delle attività economiche. Anche la giustizia di altri paesi europei è in affanno per l’aumentata mole di casi da trattare. In altri paesi il problema è meno pressante che da noi perché buona parte delle controversie a base economica avvengono in corti ad hoc, così come in corti separate vengono trattate le controversie di lavoro. Questo aspetto andrà prima o poi affrontato. Il tema è molto vasto perché richiede la separazione del codice civile dal codice del commercio (nella dizione napoleonica dell’inizio dell’800). Del resto da noi la sfera economico-professionale non si è ancora differenziata da quella sociale.
Uno strumento usato con qualche successo nei paesi nord-europei per ridurre i tempi della giustizia civile è quello della mediazione. Anche da noi lo strumento della mediazione è stato introdotto (Dlgs 28/2010) ma, anziché diminuire la mole di lavoro dei tribunali civili, ha determinato un allungamento dei tempi del procedimento cui si è di fatto aggiunto un sorta di ulteriore livello, appunto quello della mediazione. Nel progetto di riforma messo a punto dal precedente ministro Bonafede l’obbligo di mediazione veniva abolito. Il fatto è che il Dlgs 28/2010 concepisce la mediazione come una fase giudiziale e non come una ricerca di una soluzione in cui l’elemento del torto e della ragione viene completamente messo da parte per concentrare l’attenzione dei contendenti sui costi della controversia e sui vantaggi di una sua rapida soluzione. Un punto da rivedere è, dunque, sicuramente quello della mediazione che però deve essere completamente ristrutturata in modo da concepirla come un processo psicologico e non come un tentativo di conciliazione.
Probabilmente la causa principale della lunghezza della giustizia risiede nel fatto che vengono introdotti casi che non dovrebbero mai arrivare in giustizia. I nostri avvocati, alla ricerca disperata di lavoro e quindi di clienti, portano in giustizia controversie che non hanno sufficienti giustificazioni. Per una prassi che risale ai tempi della Roma antica, è l’avvocato di una delle parti che convoca la controparte davanti al giudice arrivando al punto di fissare la data e l’ora della prima udienza. È evidente che questo sistema si basa sull’assunto che l’avvocato goda di un notevole grado di autonomia nei confronti del suo cliente tale da potersi permettere di decidere solo sulla base della sua professionalità e della sua etica se il caso presentatogli abbia basi sufficienti per poter giustificare la convocazione forzata di un privato davanti ad un giudice.
Questo non è il caso del nostro paese, dove nel solo mandamento della Corte di Appello di Roma esistono tanti avvocati quanti se ne hanno in tutta la Francia. Non sembra poter funzionare l’ipotesi di lasciare iscritti all’albo, nella speranza di sfoltire il numero degli avvocati alla ricerca di occasioni di lavoro, solo quegli avvocati in grado di provare un numero minimo di casi trattati ogni anno. È evidente che questo aumenterebbe gli sforzi degli avvocati miranti “ad inventarsi” delle occasioni di lavoro. Qui si evidenzia la necessità di un intervento drastico: la convocazione della controparte non dovrebbe più essere fatta dall’avvocato della parte attrice (quella che prende l’iniziativa) ma dovrebbe essere fatta dalla macchina della giustizia a seguito della verifica che la parte attrice abbia sufficienti elementi per mettere in moto il meccanismo.
Un ulteriore notevole aggravio dei tempi della giustizia è dato dal fatto che la procedura, una volta iniziata, va avanti per diversi mesi se non anni senza che di fatto il giudice legga le varie memorie che le parti presentano. Qui non si può non ricordare un adagio che viene spesso ripetuto ai praticanti di studio: “causa che pende, cliente che rende”. L’obiettivo di un avvocato che è costretto a lottare per la sopravvivenza economica non è tanto quello di arrivare ad una soluzione della controversia quanto quello di prolungare la controversia per aumentare le occasioni di fatturazione. A questo proposito la proposta dell’ex ministro Bonafede di lasciare la parte “istruttoria” in mano agli avvocati sembra fatta apposta per allungare il brodo ed i tempi. Qui urgono interventi che obblighino il magistrato a leggere “tutte le carte” presentate dalle parti con il supporto di meccanismi ispettivi e sanzionatori esemplari.
Anni fa, quando ero stato distaccato dal “Cesare Alfieri” alla Scuola Nazionale di Amministrazione, ebbi occasione di coordinare un “project work” realizzato da alcuni cancellieri di tribunali civili dell’Emilia Romagna. Il “project work” mirava a individuare il costo pieno di una sentenza civile. Riassumo qui brevemente i risultati di questo lavoro: il costo variava sensibilmente nelle varie sedi (il costo più alto era ca. il doppio del costo più basso); la differenza di costo dipendeva sostanzialmente dal costo del tempo/uomo impiegato per produrre una sentenza ed era strettamente correlato con l’organizzazione degli uffici: il costo maggiore si aveva dove ogni magistrato si vedeva assegnato/a uno/a segretario/a; dove il magistrato doveva rapportarsi al pool di segretari/e in maniera indifferenziata il costo era minore; tanto più il rapporto magistrato/pool di segretari/e era strutturato tanto minore era il costo; i dati relativi ai costi (riscaldamento, elettricità, personale, cancelleria etc.) non sono disponibili nelle sedi delle singole corti; risulta di fatto, pertanto, impossibile realizzare una gestione manageriale della giustizia, perché chi è chiamato a prendere decisioni manageriali non dispone dei dati su cui tali decisioni andrebbero prese; i diritti che l’utente deve pagare sono comunque sempre superiori ai costi della sentenza; la macchina della giustizia civile, di fatto, sembra contribuire positivamente ai conti pubblici.
È evidente che un intervento radicale sull’organizzazione del lavoro potrebbe portare ad una pesante riduzione del carico di ogni magistrato.
Un’ultima considerazione va fatta relativamente alla informatizzazione della giustizia civile. Non si può non notare che non esiste un “manuale operativo” con le istruzioni per utilizzare lo strumento digitale. Questa mancanza, non solo crea una serie di disfunzioni pratiche, ma segnala una carenza di base: l’informatizzazione è stata sin qui realizzata senza una preventiva “analisi sistemica”. L’informatica non è uno strumento magico: se non si seguono rigidi approcci metodologici l’investimento in informatica corre il rischio di cristallizzare la disorganizzazione esistente, magari rendendola ancora più impenetrabile.