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Burocrazia buona e burocrazia cattiva. Come riformarla

Sarà necessario innescare una riforma della leadership e della responsabilità. Se un ufficio pubblico non funziona è perché chi ne ha la responsabilità non lo sa far funzionare, non lo sa motivare, non lo sa dirigere agli obiettivi adeguati. L’analisi di Antonio Mastrapasqua, manager d’azienda ed ex presidente Inps

La burocrazia potrebbe essere vista come il debito pubblico, nella contrapposizione sintetizzata la scorsa estate da Mario Draghi al meeting di Rimini. Così come c’è un debito pubblico buono – “se utilizzato a fini produttivi, a esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca” – che si contrappone a un debito pubblico cattivo – quello che viene “utilizzato per fini improduttivi”, quindi insostenibile – così potremmo dire che c’è una burocrazia buona e una burocrazia cattiva. La prima aiuta imprese e cittadini nella loro produttività economica e sociale, la seconda frena, blocca, inibisce l’operosità e la capacità di intrapresa.

Non sono mai stato tra quelli che hanno amato buttare la croce sulla burocrazia tout court. Di più. Non mi appassiona l’insulto alla burocrazia e ai burocrati del nostro Paese. Non solo perché ho avuto il piacere e l’onore di servire per anni il più grande ente pubblico del Paese, e ho visto e conosciuto migliaia di efficienti lavoratori e dirigenti. Anche qualche pecora nera? Come in ogni azienda, pubblica o privata. E lo posso dire serenamente, anche perché ho avuto e ho la ventura di frequentare molte efficienti imprese private.

In una recente intervista Sabino Cassese faceva notare che “a partire dai capi dei governi, si disprezza la burocrazia, alla quale si fanno risalire tutte le colpe dello Stato”. Ma quasi sempre a torto. Nel suo ultimo libro, il padre dei costituzionalisti italiani rammenta quello che scriveva Francesco Saverio Nitti: “I ministri che hanno per abitudine di far cadere tutte le responsabilità sulla burocrazia dan prova della propria incapacità. Nei tempi normali un vero capo trova sempre modo di utilizzare i suoi dipendenti. E se proprio i suoi dipendenti sono incapaci, trova il modo di eliminarli”. Conclusione di Cassese che umilmente sottoscrivo: “La burocrazia italiana ha molte responsabilità, ma molte altre sono del corpo politico, sia perché i legislatori esondano, sia perché i governi lottizzano”.

Anche un grande consulente d’impresa come Roger Abravanel, nel suo ultimo libro dedicato al “governo dei migliori” – che si basa su merito, mercato e concorrenza – vede nella burocrazia italiana un grande ostacolo all’affermazione del merito, ma, come fa notare Ferruccio De Bortoli, Abravanel non ama “la retorica dei ‘fannulloni’. Meglio incentivare chi fa bene e ha la soddisfazione personale di un ‘lavoro ben fatto’ contro il quale rema lo strapotere giudiziario, troppo autoreferenziale”.

Sì, la burocrazia funziona o funziona meno a seconda di chi la guida e la dirige. Non voglio avventurarmi nell’incompiuta riforma della privatizzazione del lavoro nel pubblico impiego, avviata con le leggi Bassanini, ma mi sembra difficilmente controvertibile che la buona azione della burocrazia, a prescindere dal ginepraio normativo in cui si trova a operare, dipenda da chi la “governa” pro tempore, secondo il mandato elettivo e/o parlamentare.

Ma che cosa dobbiamo intendere per burocrazia? Se dobbiamo lamentarci della sovrapproduzione normativa è difficile pensare possa esserci una “burocrazia buona”. In Italia si stima vi siano 160.000 norme, di cui 71.000 promulgate a livello centrale e le rimanenti a livello regionale e locale. In Francia, invece, sono 7.000, in Germania 5.500 e nel Regno Unito 3.000.

Ma quando ci si lamenta della burocrazia molti tendono a puntare il dito contro la Pubblica Amministrazione, intesa come il corpo – a dire il vero a volte un po’ voluminoso – dei dipendenti pubblici. E scatta il giudizio, in verità il pregiudizio, dell’inefficienza, dell’incompetenza, della scarsa applicazione al lavoro. Lo stiamo vedendo anche in questo tempo di smart working – o di home working a voler essere più precisi – considerato come uno stato di latenza semi-festiva per molti degli oltre tre milioni di dipendenti del pubblico impiego.

Forse non è del tutto trasferibile il modello “privato” nel mondo del lavoro pubblico, ma in nessuna azienda privata verrebbe mai in mente l’idea di prendersela con i dipendenti se le cose non vanno per il verso giusto. Se gli obiettivi di un’impresa non vengono raggiunti si cambia il vertice, si cerca un nuovo capo azienda, o qualche nuovo capo funzione, se a non ottenere risultato sono alcune aree dell’organizzazione. Si parla sempre di “change management” non di “change workers”. Ci sarà un motivo.

E non è pensabile che ci sia una differenza antropologica tra i lavoratori del pubblico, rispetto a quelli del privato. Ci sono maggiori protezioni? Sì. Il datore di lavoro pubblico assicura, a torto o a ragione, una discreta inamovibilità ai propri dipendenti. Ma lo scambio che si produce sembra rivolto al basso: visto che non rischi di perdere il posto, ti evito la sfida dell’impegno e della produttività. Finalmente si è fatta strada la considerazione che la dirigenza del pubblico impiego debba assumere le doverose responsabilità nell’organizzazione del lavoro e della produttività negli uffici di propria competenza.

Ma sembra che sull’efficienza dei lavoratori pubblici non pesi la capacità del vertice aziendale. E quando parlo dei vertici della Pa intendo il ruolo massimo della responsabilità amministrativa che di fatto coincide con il ruolo della politica. Il sindaco in un Comune, il governatore in una Regione o il ministro in un’Amministrazione centrale della Pa hanno una responsabilità ineludibile sull’efficienza della macchina burocratica.

Ha ragione Mario Draghi nell’indicare la riforma della Pubblica Amministrazione tra i punti del suo programma di governo. Riforma che “dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati”.

Ma poi bisognerà ricordare ai politici (e ai tecnici) che assumono ruoli di vertice amministrativo (tali sono i ministri) di innescare una riforma della leadership e della responsabilità. Se un ufficio pubblico non funziona è perché chi ne ha la responsabilità non lo sa far funzionare, non lo sa motivare, non lo sa dirigere agli obiettivi adeguati. Diffido dai politici che considerano la burocrazia un problema. Le risorse umane sono sempre risorse. Da mettere a valore, se lo si sa fare.



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