Israele ed Egitto continuano a espandere la loro cooperazione sulle questioni del gas naturale, mentre la regione del Mediterraneo orientale cerca un riassetto verso un equilibrio tattico. Il messaggio al nuovo presidente statunitense Joe Biden: disponibilità a disinnescare le tensioni nella regione
Il ministro del Petrolio e delle Risorse minerarie egiziano, Tarek El Molla, è tornato dalla sua prima visita in Israele con un risultato molto interessante: la bozza di accordo per la costruzione di una gasdotto con cui collegare il campo gasofero Leviathan israeliano alle infrastrutture della Egyptian Liquefied Natural Gas.
La notizia è importante perché i gasdotti sono strutture che creano connessioni fisiche tra paesi e, trasportando un bene di carattere strategico, sanciscono connessioni geopolitiche. Tutto avviene in un quadrante delicato, il Mediterraneo orientale, teatro di intense attività attorno a reservoir energetici di valore.
Il collegamento Israele-Egitto consentirà al primo di esportare più facilmente il gas verso l’Europa, all’altro di spostare su di sé un altro asset energetico dell’area trasformandosi in un polo ancora più di valore — se si considera che alcuni dei campi estrattivi e gli impianti migliori sono egiziani (anche sulla base di questa posizione prominente l’egiziano El Molla presiede l’Eastern Mediterranean Gas Forum).
Era dal 2016 che un ministro egiziano non si recava in Israele, ha ricordato Yuval Steinitz (ministro dell’Energia dello stato ebraico), e questo dà ulteriore peso e misura al viaggio e all’avvio dei lavori sul progetto, che rappresenta la più importante intesa economico-commerciale tra i due paesi dopo firmata 42 anni fa.
Alcuni cambiamenti sono stati accelerati recentemente, Israele ha avviato una politica di stabilizzazione con il mondo arabo interessato alla creazione di una bolla di sicurezza e stabilità nella regione del Mediterraneo allargato (dunque anche nel Medio Oriente).
L’asse Egitto-Israele diventerà “un hub energetico” ha commentato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Un’affermazione che sarà rimbombata tra i corridoi presidenziali di Ankara, dove l’ergersi a hub dell’energia — e dunque verso l’Europa — è sempre stato un obiettivo di Recep Tayyp Erdogan. Questo obiettivo ha portato la Turchia a magnetizzare contro di sé un raggruppamento regionale guidato dall’Egitto e sfruttato da Grecia e Cipro (Paesi che hanno contenziosi territoriali aperti con i turchi).
Raggruppamento a cui partecipano anche gli Emirati — moderatamente interessati al mercato energetico mediterraneo e molto più attenti nello sfruttare ogni possibilità per indebolire la Turchia, nemico geopolitico e ideologico all’interno del sunnismo.
Raggruppamento che Israele cerca invece di gestire in modo da evitare eccessivi scossoni, creando contatti discreti con Ankara. Negli ultimi mesi comunque una linea di generale stabilizzazione sta avvolgendo la regione, ed è anche frutto dell’Effetto Biden. Si tratta di scelte tattiche più che convinzioni: metodi per mostrare alla Casa Bianca la disponibilità a disinnescare tensioni.