Lo smart working non è più una misura di emergenza ma un modo di lavorare integrato nella società post-pandemia. E allora servono nuove regole. La proposta dell’Inapp
“Adesso serve una contrattazione collettiva per dare allo smart working una struttura solida e organica”. Parola di Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, presentando il seminario che l’Istituto ha dedicato alle prospettive del lavoro agile. “Per questo è necessario un intervento quadro del governo all’interno del quale si possano disegnare modalità organizzative aderenti all’evoluzione delle tecnologie e alle competenze dei lavoratori nelle diverse realtà produttive Se prima della pandemia infatti il lavoro agile si basava su un accordo individuale (tra azienda e singolo lavoratore) adesso non è pensabile tornare indietro ma serve pianificare un nuovo smart working che vada oltre l’emergenza del coronavirus”, spiega Fadda.
Per il quale “occorre introdurre nelle aziende, e man mano anche nei contratti di lavoro collettivi, regole comuni per dare a tutti le stesse opportunità ed eliminare quelle diseguaglianze, generazionali e di genere, che il Covid-19 ha reso ancora più manifeste”. Tutto questo è emerso dal seminario online che l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche ha dedicato alle prospettive del lavoro agile in Italia e a cui hanno partecipato il presidente dell’Aran, Antonio Naddeo, il direttore delle relazioni industriali di Confindustria, Pierangelo Albini, la segretaria confederale della Uil, Tiziana Bocchi, l’esperta di organizzazione aziendale Anna Maria Ponzellini e il giuslavorista Arturo Maresca.
Prima del coronavirus lo smart working era un fenomeno residuale, ve ne facevano ricorso appena 570mila lavoratori, nella fase più acuta della pandemia, in pieno lockdown, sono stati oltre 8 milioni gli italiani che hanno dovuto cambiare il modo di lavorare, con circa 2 milioni nel settore privato mentre per la pubblica amministrazione è stato quasi il totale. In Italia si è fatto poi soprattutto telelavoro: vale a dire lo svolgimento da remoto delle stesse mansioni che si facevano in ufficio.
“Lo smart working vero e proprio comporta invece una complessa riorganizzazione: cambiano le mansioni, i processi produttivi, i tempi e i luoghi di lavoro. È un processo di re-ingegnerizzazione che punta alla responsabilità di gruppo, al contenuto e al risultato. Si può lavorare da casa, nei luoghi di coworking, nelle località sedi di eventi e, di contro, gli spazi all’interno dell’impresa non sono più assegnati agli individui, ma alle funzioni, e quindi possono essere condivisi”, ha spiegato Fadda.
Insomma, “la politica in questo deve avere un ruolo di regia, stabilire una cornice di diritti e di regole quali il diritto alla disconnessione, la fornitura degli strumenti di lavoro, le tempistiche. Una delle possibilità è quella di differenziare le modalità settore per settore, tenendo conto delle specificità; i servizi bancari, per esempio, non hanno le stesse problematiche del manifatturiero”.
Per superare questo gap hanno convenuto i partecipanti al seminario si deve investire su politiche di diffusione delle nuove tecnologie in tutte le attività produttive e di formazione professionale per acquisire le appropriate competenze. Inoltre si deve ridurre la segmentazione e la discriminazione nei mercati del lavoro. Ma non si tratta solo di una questione di genere: la pandemia ha penalizzato anche i giovani. Molti hanno perso il lavoro perché svolgendo mansioni “base” non hanno potuto accedere allo smart working, altri in quanto precari non hanno avuto il rinnovo del contratto.