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Il M5S si sfalda, sarà Conte la sua colla? Il mosaico di Fusi

Il bon ton liberale di Di Maio e l’eleganza di Conte funzioneranno da calamita in un Movimento sempre più spaccato? Oppure toccherà agli espulsi acchiappare quel pezzo di Paese scontando il fatto di non avere una leadership credibile né un programma solido a parte un generico ribellismo? Dubbi nell’uno o nell’altro caso sono legittimi

Ciò che nella crisi del M5S maggiormente impressiona è lo sbriciolamento dei consensi unito alle giravolte ideali, all’identità di riferimento. A tal punto che un movimento nato per aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, annientare la Casta, spalancare le porte alla democrazia digitale diretta, cambiare l’Italia con la ricetta dell’uno vale uno, dopo aver perduto venti punti percentuali passa disinvoltamente da forza anti-sistema per antonomasia a guardiana del liberalismo e del moderatismo. Immaginando di poter senza colpo ferire sostituire la raffica di Vaffa con la pochette di Giuseppe Conte.

Quanta credibilità possa esserci in questi progetti (a cui bisognerebbe aggiungere la guerriglia per la piattaforma Rousseau e le confusioni dell’Elevato capace perfino di arruolare Mario Draghi sotto la griffe di grillino doc), si vedrà presto. L’incontro inopinatamente clandestino a Bibbona, saltato ma forse no e comunque in agenda magari da un’altra parte, e il pressing sull’ex premier sveleranno la praticabilità di un percorso che sempre più assomiglia ad un labirinto.

Tutto questo non può non avere riflessi sul quadro politico. Ma ancor più profondi li ha su quello sociale, sul rapporto eletti-elettori. In sostanza sulla tenuta e solidità del sistema-Paese. Già, perché il fenomeno straordinario cui stiamo assistendo è che si è creato un cratere al centro (in senso geometrico e non solo politico) dello scenario italiano. Il partito del 33 per cento di appena due anni fa si sta sfaldando e ciò pone due ordini di questioni. La prima, ovvia, è chi si accaparrerà il cospicuo bottino dei consensi in uscita; la seconda – assai più rilevante – è chi o cosa si approprierà della rappresentanza politica, sociale e istituzionale di quel pezzo di Italia. Nelle tornate elettorali del 2013 e del 2018 sul MoVimento sono confluite le istanze di protesta, rabbia, incertezza, voglia di vendetta e di palingenesi di una fetta maggioritaria di elettori. Un magma che è stato tenuto assieme dal carisma e dal funambolismo di Beppe Grillo ma che la prova di governo ha stressato provocando lacerazioni irrecuperabili proprio perché al contrario di quel che scommetteva il Garante non è né era mai stata la governabilità il cemento delle varie anime del M5S.

Ora l’identità di governo, dopo due anni e mezzo di tentativi con vari e opposti partner, è messa a durissima prova dall’adesione al progetto Draghi. Mentre quella anti-sistema è o dovrebbe essere incarnata dai ribelli di “Alternativa c’è” o simili. Questo per il quadro politico. Ma nel corpaccione della società italiana cosa accadrà? Dove finirà e come si incanalerà il sentimento di frustrazione e sfiducia che ha ammaliato un così gran numero di cittadini? Potrebbe rifluire sull’astensione, è non è una bella notizia per l’equilibrio complessivo del sistema. Oppure indirizzarsi verso altri contenitori politici. I quali potrebbero ricalcare la traiettoria del MoVimento: notevoli consensi nelle urne, incapacità di gestirli sul piano politico di governo.

C’è un’Italia malmostosa e indefinita che il fenomeno grillino ha portato alla luce, svellendola con il forcipe dell’attacco alla cittadella del potere e della classe dirigente. È andata male, e a ben vedere non poteva che essere così. Ma quelle pulsioni che fine faranno? Il bon ton liberale di Di Maio e l’eleganza di Conte funzioneranno da calamita? Oppure toccherà agli espulsi acchiappare quel pezzo di Paese scontando il fatto di non avere una leadership credibile né un programma solido a parte un generico ribellismo? Dubbi nell’uno o nell’altro caso sono legittimi. Ma al dunque l’estremismo di centro, come viene etichettato, che fine farà? Sono interrogativi di spessore. L’auspicio è che la competenza, la capacità, il prestigio del nuovo presidente del Consiglio possa fungere da attrattiva per un elettorato spaesato e timoroso. Che posa cioè riattivare il circuito virtuoso della fiducia degli italiani nel loro sistema politico.

Il paradosso è che un tale compito di grande, grandissimo spessore democratico dovrebbe svolgerlo un supertecnico e non un politico. E così un’altra, stordente, contraddizione si affaccia.


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