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Proteggere il dialogo interreligioso. Conversazione con Del Re sul viaggio di Francesco

L’ex viceministra degli Esteri italiana racconta la sua esperienza in Iraq. Uno spaccato sui valori politici e sociali delle minoranze e del dialogo tra religioni su cui il viaggio di papa Francesco ha acceso i riflettori internazionali

Il dialogo inter-religioso che è stato alla base del viaggio di Papa Francesco in Iraq è un elemento cruciale non solo per il paese, ma anche per la regione. Basta pensare ad altre situazioni come il Libano, o più in generale alle criticità inter e intra religiose dietro le divisione in Medio Oriente, per comprendere la necessità di dialogo.

Quanto, come e perché questo può essere un vettore di stabilizzazione in un’area ancora critica?

“Fratelli Tutti” — risponde l’onorevole Emanuele Del Re, già viceministra degli Esteri ed esperta d’Iraq — è la sintesi straordinaria che Papa Francesco ha elaborato e che riflette tutto il senso del lavoro delle comunità religiose per la convivenza e la pace. Il dialogo interreligioso è diventato una necessità socio-politica in molti contesti. Quando le persone vivono “vite parallele” nella società, perché appartengono a comunità diverse che vivono nello stesso contesto ma raramente interagiscono tra loro, si creano tensioni, fraintendimenti, forme d’odio, conflitti. Un modo positivo di costruire società più inclusive per dare una risposta alla loro percezione di essere a rischio che deriva dalle divisioni sociali, è creare occasioni di dialogo tra persone di religione diversa, che permette alle comunità di costruire una consapevolezza dei diversi punti di vista ed esperienze degli altri.

Cosa si rischia senza dialogo?

Il dialogo interreligioso si è andato sempre più consolidando come prassi, dall’Irlanda del Nord alla Nigeria, al Medio Oriente. Conosco molto bene molti di questi contesti. Non v’è dubbio che i rischi potenziali in zone dove convivono diverse comunità etniche o religiose  (in genere si parla di coesistenza ma vi è una riflessione profonda sulla necessità di superare questo concetto in favore della convivenza) così come l’incentivo positivo alla stabilità e alla sicurezza che deriva dagli incontri tra le diverse comunità, hanno reso il dialogo interreligioso sempre più importante e praticato.

Ad esempio, i governi della Giordania, del Qatar,  e altri nella regione hanno ospitato grandi incontri internazionali di dialogo interreligioso e hanno sostenuto la creazione di istituzioni permanenti dedicati a queste attività. Il valore sta per prima cosa nell’incontro, nel confronto, nell’ascolto. In contesti complessi come il Medio Oriente si tratta di azioni molto difficili, a cui si arriva gradualmente, o a seguito di traumi che hanno colpito tutte le comunità come il numero dei morti a seguito di un conflitto o l’impossibilità di accedere a risorse.

Perché è così importante nel Medio Oriente?

Il dialogo interreligioso in Medio Oriente è cruciale per la costruzione di una memoria collettiva condivisa. Seppure non si riesca ad ottenere il consenso immediatamente, il processo di riflessione stesso di per è fondamentale. Si potrebbe pensare che il dialogo interreligioso non differisca dal dialogo tra comunità in genere in contesto laico. Tuttavia, esso è caratterizzato da aspetti unici come il riferimento a valori morali ed etici legati alla religione, che sono elementi su cui si possono costruire comuni cornici interpretative. Lo stesso bisogno di proteggere la comunità, di proteggere i luoghi di culti, di riuscire a praticare i riti e a celebrare le feste, i momenti salienti del ciclo della vita.

Qual è la sua esperienza?

Dopo decenni di esperienza in questo ambito, siamo ormai consapevoli del fatto che il dialogo interreligioso non è un negoziato ma un modo per rafforzare ciascuna parte. C’è bisogno di specialisti ormai, non si può lasciare il processo all’improvvisazione. In Medio Oriente è particolarmente importante perché crea reti, che possono contribuire a costruire una cultura di pace.

Cosa deve fare la Comunità internazionale?

Deve favorire al massimo questo processo finanziando le organizzazioni della società civile locali, che svolgono un lavoro capillare nel tessere rapporti tra individui, famiglie, cercando di creare luoghi in cui ci si possa incontrare, conoscere da vicino. In Medio Oriente sono moltissime le OSC che operano in questo campo e che affiancano le attività di dialogo interreligioso istituzionali. Sono fondamentali perché garantiscono equilibrio a livello locale, il problema è riuscire a fare in modo che possano acquisire una maggiore visibilità come esempio virtuoso e soprattutto che possano interagire concretamente con le istituzioni e i governi. Conosco queste realtà in Medio Oriente e ho dato loro voce attraverso scritti e documentari, e continuo a pensare che esse devono essere pubblicizzate, conosciute, in Europa e nel mondo, non solo nei momenti di crisi come l’avvento di Daesh o attacchi terroristici, ma nella normalità della quotidianità.

Un processo costante, quindi…

Il rischio è che se ci interessiamo a queste pratiche solo nei momenti critici poi l’attenzione scemi. Ho visto organizzazioni internazionali finanziare ONG locali nate da membri di comunità vessate per fronteggiare l’emergenza e una volta che l’attenzione mediatica si è spostata su un’altra crisi i finanziamenti sono stati interrotti. Finchè non si comprenderà che è proprio l’attività portata avanti dopo l’acme della crisi che garantisce la stabilità, non potremo dire che stiamo davvero lavorando per la pace.

Quale è secondo lei il messaggio del viaggio papale?

Papa Francesco con la sua visita ha voluto lanciare questo messaggio: dobbiamo sostenere questo mondo che vuole la pace. Bisogna dare gli strumenti per mettere in atto le attività. Peraltro, più li sosteniamo più evitiamo derive estremiste, che utilizzano l’etichetta del dialogo in realtà per rafforzare le identità religiose “contro” gli altri e non “con” gli altri. Il dilemma delle organizzazioni che fanno dialogo interreligioso sta proprio nel rapporto con la politica: tenersi fuori dalla politica e restare così nell’ombra o acquisire una visibilità politica e rischiare di essere tacciati di essere di parte? La soluzione sta appunto nelle reti, nel presentare istanze collettive, ovvero di molte comunità diverse. Non ci si rende conto che per la società civile in Medio Oriente mettere in piedi un’iniziativa simile è difficilissimo.

Perché?

Ricordo una mia amica proprio in Iraq che voleva mettere in piedi un centro per il dialogo interreligioso in una città teatro di numerose violenze, e che pur avendo ottenuto i fondi, si sentì rispondere che non era il caso, perché il centro sarebbe subito diventato un bersaglio e sarebbe stato di sicuro bombardato. Papa Francesco lancia un messaggio chiaro rispetto a questo dialogo, ovvero che si deve dimostrare la volontà di farne parte, di dare inizio al percorso. Un messaggio alle comunità, ma soprattutto ai leader perché creino le condizioni di governance per poter esercitare il dialogo in sicurezza. Per me il dialogo interreligioso deve diventare parte della narrativa quotidiana di tutti, anche dei non credenti, perché deve corrispondere a un concetto nuovo di cittadinanza globale che ci impone di riconoscere la complessità di ciascuna persona con tutte le sue identità, anche religiose, sia nel gruppo sia come individuo, in un mondo contemporaneo che tende ad appiattire la complessità. Se un tempo la strategia delle minoranze religiose era quella di nascondersi, per quanto mi riguarda penso che oggi invece si debba favorire la massima esposizione, per consentire di conoscerle quelle comunità. Ho scritto molto delle tante e importanti attività anti-radicalismo delle comunità musulmane in Europa che soffrono il terrorismo cosiddetto Jihadista come le altre comunità. Ma restano per lo più invisibili.

Un lavoro spesso nascosto…

Papa Francesco restituisce dignità a tutto questo impegno. Quando si è recato negli Emirati Arabi Uniti nel 2019, considerando  che gli Emirati hanno sostenuto l’Arabia Saudita nella guerra nello Yemen che ha provocato la crisi umanitaria più grave degli ultimi anni, ha promosso proprio il dialogo interreligioso. Resta il fatto che in Medio Oriente il dialogo interreligioso è ancora relativamente recente e che il contesto politico di ogni paese ne influenza lo sviluppo. Poiché si registra anche una grande varietà di approcci e scopi nelle attività di dialogo interreligioso nella regione, le visite del Papa hanno un forte valore razionalizzante valorizzando lo strumento del dialogo come trasversale e utile per tutti.

Cosa sperare?

Personalmente auspico che il dialogo interreligioso attraverso le sue istituzioni formali possa cominciare a mettere in piedi azioni concrete soprattutto nell’ambito dell’istruzione e della cittadinanza come voce alternativa nel dibattito politico (sempre molto complesso e rischioso) facendo leva sull’autorevolezza che trae dal rappresentare più comunità e valori positivi di convivenza.

Qual è il ruolo iracheno, e quali le sue criticità, nel contesto regionale?

Il viaggio è un gesto potentissimo perché si inserisce in un percorso di dialogo interreligioso articolato che una parte della popolazione dell’Iraq ha messo in atto da tempo, avendo attraversato decenni di conflitti, il regime repressivo di Saddam Hussein, la mancanza di governance, attacchi terroristici di varia natura, una crisi economica. Il dialogo interreligioso è diventato una vera e propria necessità socio-politica in molti contesti, e ancor più nel caso dell’Iraq dove l’impatto di Daesh è stato particolarmente duro sulle minoranze religiose, in particolare sui Cristiani e sugli Yazidi, in una terra che aveva già dovuto affrontare l’emergenza dei rifugiati dalla Siria organizzando l’accoglienza.

Ci racconti il contesto…

In quel periodo vivevo in Iraq e dopo aver vissuto con le centinaia di migliaia di rifugiati siriani nei campi profughi seguendone tutte le dolorose vicende, vedere arrivare a Erbil e altrove gli sfollati Yazidi e Cristiani perseguitati, con il conseguente allestimento di altri campi in tante zone, mi fece provare davvero un senso di sconforto, acuito peraltro da unulteriore successiva ondata di sfollati musulmani che fuggivano dalla violenza di Daesh.  È certo che la questione irachena non nasce nel 2014 e non soltanto a causa di Daesh. Riguarda spaccature molto più profonde e complesse anche all’interno dello stesso Islam iracheno. La conseguenza sociale di queste spaccature è certamente la separazione tra le comunità, che è il risultato della strategia usata dalle comunità per proteggersi, allo stesso tempo però creando isole etnico-religiose che vivono vite parallele riducendo il livello di interazione con gli altri al minimo.

L’assenza di dialogo è destabilizzante?

Questa situazione può comportare effetti negativi come fraintendimenti, tensioni latenti, odio, conflitti intra e inter-gruppo. Si crea un senso diffuso di minaccia percepita nell’altro da sé che proprio il dialogo può contribuire a superare, perché il dialogo per prima cosa aiuta le comunità a sviluppare la capacità di conoscere il punto di vista, la prospettiva delle altre comunità. In Iraq gli eventi degli ultimi anni hanno dato un forte impulso alla costruzione della consapevolezza delle varie comunità che si basa sulla oggettiva necessità di riconoscersi in un unico destino essendo tutti vittime in un modo o nell’altro.

Il dialogo interreligioso in Iraq tra Cristiani, Yazidi, Shabak, Sabei/Mandei, era già in atto anche prima di Daesh, perché la necessità di creare più coesione sociale in un paese oppresso da decenni di politiche che si poggiavano proprio sulla divisione della tra le comunità  — come ad esempio la brutale campagna militare chiamata Anfal contro i Curdi ordinata da Saddam Hussein nel 1988 — per decretare il loro stato di inferiorità, in questo modo instillando in esse la sensazione di essere permanentemente a rischio.

La scelta dell’Iraq per veicolare il messaggio del Papa è strategica…

Per quanto riguarda il dialogo interreligioso in Iraq potremmo far partire la riflessione dal 2010, quando a seguito del massacro di dozzine di fedeli nella chiesa di Sayedat al-Najat a Baghdad perpetrato dall’ISIS nell’ottobre di quell’anno, l’Istituto Masarat insieme alla Fondazione dell’Imam Al-Khoei e al momanstero dei Padri Domenicani crearono l’”Iniziativa per il dialogo tra musulmani e cristiani”. Quella prima iniziativa ha portato alla fondazione nel 2013 del Consiglio Iracheno del Dialogo interreligioso, che è diventato un’istituzione di riferimento.

Molto importante l’istituzionalizzazione dell’iniziativa, perché se le prime iniziative erano una reazione a un episodio di violenza gravissimo, nel tempo il dialogo interreligioso è diventato la risposta all’esigenza delle comunità di sviluppare strategie di convivenza, in modo strutturato. La cornice istituzionale permette di riunire formalmente attorno a un tavolo Sunniti, Sciiti, Cristiani, Ebrei, Sabei/Mandei, Kaka’i, Bahai, Yazidi. Un’azione molto complessa che implica lo sviluppo di forme di comunicazione trasversali e condivise, anche allo scopo di riconciliare comunità che durante la loro storia hanno subito atti dolorosi a volte l’una dall’altra. Un elemento importante è il fatto che si riconosce, con questa istituzione, una dignità anche alle comunità più piccole che peraltro non hanno status politico nel governo iracheno.

Dialogo uguale futuro?

Partecipare al dialogo interreligioso in Iraq è una opportunità straordinaria di riconoscimento da parte delle istituzioni e delle altre comunità. Offre anche una piattaforma per identificare le questioni sociali, politiche ed economiche che riguardano le varie comunità, allo stesso tempo delineando interessi comuni. È un esercizio che si pone come catalizzatore delle spinte verso una società pluralistica con uguali diritti e doveri per tutti mantenendo però, ed è questa la grande sfida, l’identità delle singole comunità.

C’è grande timore da parte delle minoranze religiose di perdere la propria identità soprattutto a causa delle emorragie di giovani che hanno lasciato il paese sia a causa di Daesh ma anche per le discriminazioni e per l’assenza di opportunità. La paura dell’emigrazione mi è stata manifestata da tutti nel paese. Sembra che ora ci sia un graduale ritorno alla terra d’origine di chi è emigrato, ma è un fatto che tra le persecuzioni e le emigrazioni il numero dei membri delle comunità è drasticamente diminuito. Questo incide sul potere delle comunità di fare massa critica e di avere una rappresentanza istituzionale locale e nazionale.

Quali sono i problemi reali?

Se i giovani se ne vanno, la comunità rischia di interrompere la trasmissione degli elementi identitari alle nuove generazioni – lingua, religione, stili di vita – e si perde anche la memoria collettiva. Ecco perché il lavoro del Consiglio Iracheno per il Dialogo Interreligioso diventa fondamentale: agisce per preservare la natura pluralistica della società irachena e per usare la religione come parte della strategia per la risoluzione dei conflitti. Importante per il Consiglio restare indipendente e per questo non accetta sussidi statali. C’è anche il problema della rappresentanza all’interno del Consiglio, perché i leader religiosi sono molti e non tutti rappresentano le loro comunità nel complesso.

Il livello delle aspettative in merito alla performance e alla rappresentanza nel dialogo interreligioso è molto aumentato nel tempo. È così?

Le comunità sono più esigenti e fatto richieste chiare. Di certo ha contribuito in questo l’enorme esposizione mediatica a livello globale che le comunità hanno vissuto negli ultimi anni. Se si pensa che gli Yazidi hanno subito 73 persecuzioni nella loro storia (qualcuno dice 74) e il mondo si è accorto solo dell’ultima, appare chiaro quanto sia cambiata anche la posizione delle stesse comunità nei confronti del mondo. Abbiamo Nadia Murad, la giovane Yazida, premio Nobel per la Pace, ad esempio. Una vera e propria rivoluzione culturale, che riguarda anche noi sempre distratti dalla futilità dell’immanenza.

La consapevolezza nuova comporta anche nuove istanze soprattutto legate alla richiesta che le questioni discusse negli incontri di dialogo interreligioso riflettano un processo preliminare nel quale la comunità nel suo complesso esprime i suoi bisogni e le sue idee. Questo non dovrebbe riflettere e sostenere la volontà di tutta la comunità? E’ un nodo delicato, perché se i rappresentanti delle comunità nel dialogo non riescono a esprimere la volontà collettiva, il risultato è la disillusione di alcuni membri che possono decidere di allontanarsi.

Le minoranze religiose oggi non sono più intente solo a difendersi, a proteggersi, ma anche a comunicare…

I più giovani, che posseggono più know-how, spesso si sentono distanti dalle gerarchie interne alle comunità religiose perché oggi godono di una autonomia che in passato non avevano. Per questo il Consiglio iracheno per il Dialogo interreligioso intelligentemente sostiene le iniziative del Circolo cooperativo della Gioventù irachena per il dialogo e la coesistenza (Iraqi Youth for Dialogueand Coexistence Cooperation CircleYDCC) che organizza anche incontri in altri paesi. D’altra parte il dialogo interreligioso lavora proprio attraverso le reti. Non a caso il Consiglio per il dialogo interreligioso in Iraq lavora con Il Consiglio Pontificio per il Dialogo interreligioso.

Le comunità religiose oggi vogliono essere protagoniste sulla scena globale piuttosto che auto-emarginarsi per difendersi, dunque?

E vogliono cooperare con le altre comunità perché hanno capito che il dialogo è un’azione riparativa – lo è stato da sempre in zone di conflitto – ma ha anche una dimensione proattiva. Una rivoluzione di ruoli e prassi e visioni che ha investito il mondo nei confronti delle comunità religiose irachene e le comunità nei confronti del mondo.

Se mettiamo insieme tutti gli elementi, incluso il ruolo delle istituzioni internazionali che ad esempio hanno contribuito a definire le persecuzioni come tali e in qualche caso (Yazidi, Armeni) anche come genocidi, in questo modo dando un indirizzo chiaro all’opinione pubblica globale, appare quanto il dialogo interreligioso sia uno strumento sempre più importante. E’ anche uno strumento unico nel rendere le comunità protagoniste: le organizzazioni e le istituzioni internazionali non sono sempre capaci di dare risposte, perché solo le comunità stesse sanno utilizzare il giusto linguaggio che deriva dalla necessità di una comprensione reciproca partendo dalle stesse basi, ad esempio l’appartenenza a uno stesso territorio, interiorizzando concetti cross-culturali.

Il livello di violenza subita, la crisi economica, le scarse opportunità per i giovani sono le motivazioni sufficienti?

Già in passato sono nate alleanze ad esempio tra gli Shabak, i Cristiani e i Turkmeni per risolvere problemi comuni come la sicurezza, il controllo del terriroio, aumentare l’accesso alle risorse. L’Iraq vive un momento in cui il pluralismo è diventato un concetto da praticare nel concreto. Molti dicono – nei miei documentari sugli Yazidi e sui Cristiani in Iraq riporto molte testimonianze di questo – che prima di Daesh in realtà le comunità, soprattutto musulmani e cristiani, vivevano pacificamente, in amicizia, con un senso di comunità allargata pur restando indipendenti l’uno dall’altro. Si partecipava ai funerali dell’una e dell’altra comunità, ai matrimoni, alle feste più importanti. Nel mio documentario sui Cristiani perseguitati racconto di due momenti diversi della storia dell’Iraq, ovvero prima e dopo Daesh.

Apro con l’inaugurazione di una chiesa cristiana caldea nel nord dell’Iraq, con la partecipazione anche del patriarca Louis Raphaël I Sako che sottolinea proprio questo mentre parla con me e mi presenta il signore accanto a lui che è il sindaco musulmano della cittadina dove sorge la chiesa. Proseguo poi con il dopo-Daesh, quando ormai c’è disperazione, i Cristiani sono dovuti fuggire dalle loro case e vivono nei conteiner nei campi per sfollati. Oggi dopo un periodo in cui le comunità sisono dovute riorganizzare per sopravvivere alle persecuzioni, sta ritornando questa consapevolezza di dover lavorare insieme soprattutto per avere rappresentanza nelle istituzioni e partecipare alla politica per esercitare i propri diritti. Il concetto di cittadinanza è molto complesso in Iraq, e l’appello all’unità nazionale è sempre molto forte. Riconoscere a tutte le comunità pari diritti è fondamentale se si vuole un Iraq dinamico, che sappia mettere a sistema tutte le risorse che ha, non solo il petrolio, ma anche e soprattutto quelle umane.

C’è una nuova narrativa che parla di inclusione, in Iraq?

 È emersa fina dal 2014 giocando un ruolo chiave nella ricostruzione. Si va alla ricerca di elementi unificanti. Una professoressa curdo-irachena musulmana afferma in un’intervista che riporto nel mio documentario sugli Yazidi con i quali ho vissuto, che gli Yazididevono essere rispettati perché hanno dato prova di essere dei veri curdi. Allo stesso modo un crisitano americano tornato nel paese d’origine per visitare gli anziani genitori, cristiano caldeo, afferma che come prima identità sente quella irachena, e poi tutte le altre.

Quali sfide?

In Iraq il dialogo interreligioso è percepito come un’opportunità ma anche un rischio. Ancora oggi l’appartenenza a una comunità è la certezza principale per l’individuo, e quindi molti temono che il dialogo interreligioso possa far apparire tutte le religioni uguali, sminuendo l’unicità di ciascuna religione. La gente non vuole rinunciare alla propria identità anche perché è su di essa che si muovono l’accesso alle risorse e le opportunità, perché le comunità sono reti. Superare queste perplessità è una vera sfida, ma il dialogo interreligioso è un processo che ha un valore soprattutto quando vi sono minoranze coinvolte, perché crea equilibrio di potere soprattutto tra minoranze e gruppi maggioritari. Di certo in Iraq questo esercizio è importantissimo perché le comunità non sono pronte a negoziare sulle loro istanze e quindi devono essere assolutamente coinvolte nel processo negoziale e decisionale. Il dialogo interreligioso in questo senso diventa veramente strategico.

Risultati per ora?

Secondo me il più grande risultato del dialogo interreligioso in Iraq è l’aver consentito alle comunità di far parte di un contesto globale, nel quale le loro differenze vengono rispettate mentre le distanze tra di loro vengono ridotte, e nel quale possono esprimersi avendo imparato un linguaggio trasversale che può essere compreso a livello globale. Li ha resi protagonisti del loro destino, agenti sociali in una società plurale come l’Iraq.

L’Iraq è stato recentemente re-inserito nel Documento triennale per la cooperazione allo sviluppo dalla Farnesina (quando lei era viceministra) come Paese prioritario. Cosa può fare di più l’Italia e l’Europa in questo territorio che è alle nostre porte?

Sono stata io stessa a promuovere questo reinserimento dell’Iraq tra i paesi prioritari della Cooperazione allo Sviluppo italiana. La motivazione sta nella mia convinzione non solo che l’Iraq abbia bisogno del nostro contributo per il suo sviluppo in una fase veramente cruciale della sua storia, ma anche che l’Iraq sia un paese centrale per l’Italia per mettere in atto le conoscenze consolidate ma anche per imparare a sviluppare e affinare le prassi in un contesto dalle cui dinamiche possiamo solo apprendere. Una vera sfida che partiva dall’idea di aiutare le comunità a costruire il proprio futuro, con l’ambizione di favorire l’empowerment, il passaggio di conoscenze, sempre in collaborazione.

Lo sviluppo dell’Iraq è fondamentale per tutto il Medio Oriente?

L’Iraq ha tutta la capacità per diventare un elemento di equilibrio in Medio Oriente, e può aiutare a ricucire le divisioni nel mondo arabo. Può essere un modello, anche per la sua storia recente di guerre e violenze, ed è il luogo in cui l’equilibrio regionale è saltato, ma proprio la sua centralità, la sua demografia, le sue relazioni, può trasformarsi nel paese ideale per gestire le pressioni contrapposte e la polarizzazione settaria che hanno destabilizzato  il Medio Oriente negli ultimi quindici anni.

E l’Italia?

Il contributo italiano che favorisce lo sviluppo dell’enorme potenziale della società civile, sarà fondamentale perché agisce su molti livelli, coinvolgendo molti attori (auspicabilmente anche il privato), peraltro in molti settori. Il legame tra Italia e Iraq è fortissimo anche perché abbiamo sempre lavorato nel paese, anche dimostrando amore per la sua storia e la sua cultura con le numerose e prestigiose nostre missioni archeologiche nel paese. Io stessa ho cercato di dare un contributo con i miei progetti con le Università irachene, con le varie comunità. Credo che l’esperienza dolorosa e di ricostruzione di tutte le comunità etniche e religiose irachene possa insegnarci moltissimo, ed è per questo che più collaboriamo allo sviluppo del paese e più ci conosciamo più agiamo in modo adeguato per un mondo più inclusivo.



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