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Perché non bisogna temere un ritocco alla politica della Bce

Molti osservatori si chiedono se domani il Consiglio della Banca centrale europea interverrà sulle misure monetarie. Le previsioni economiche indicano concordemente una ripresa molto lenta: l’Italia ed altri maggiori Paesi dell’Unione europea dovranno attendere almeno sino a fine 2023 per tornare ai livelli di produzione, di reddito e di consumi di fine 2019. Cosa deciderà la Bce?

Domani 11 marzo si riunisce il Consiglio della Banca centrale europea (Bce). Ci si chiede se l’autorità monetaria europea “ritoccherà” la strategia di bassi tassi e di acquisti alla grande di obbligazioni degli Stati dell’Unione monetaria come paiono suggerire, o meglio temere, alcuni osservatori, i quali guardando con una certa apprensione al mercato azionario e obbligazionario Usa, temono una ripresa dell’inflazione su scala mondiale.

Su questa testata è stato già evocato il rischio di una stagflazione, fenomeno esiziale che caratterizzò parte degli anni Settanta del secolo scorso, dopo il rapido aumento del prezzo del petrolio. Ora, le previsioni economiche indicano concordemente una ripresa molto lenta: l’Italia ed altri maggiori Paesi dell’Unione europea dovranno attendere almeno sino a fine 2023 per tornare ai livelli di produzione, di reddito e di consumi di fine 2019. La storia economica ci insegna che al termine di una pandemia si verificano aumenti dei prezzi, anche e soprattutto per strozzature dal lato dell’offerta, mentre la domanda tenta di tornare ai livelli di consumo che precedevano la calamità.

Tali strozzature cominciano a vedersi; ad esempio, le tariffe per i trasporti di cargo su navi transoceaniche sono quasi raddoppiate in un anno e l’aumento dell’uso di strumenti di comunicazione ad alta tecnologia (dagli smartphones, ai tablets, ai Pc) è stato molto più rapido dalla produzione di semiconduttori, con la conseguenza che in un comparto in cui i prezzi diminuivano da anni ci sono ora segni di aumenti. Ci sono segnali pure nel mercato delle materie prime: oltre al prezzo del petrolio stanno aumentando i corsi del cobalto, del rame, del nickel e di altri metalli. L’incremento delle quotazioni del petrolio dipende dall’offerta: la decisione dell’Arabia Saudita di contenere la produzione, i ritardi dei piani d’investimento in molti Paesi produttori africani, la riduzione delle esportazioni dall’Iran. L’aumento dei corsi dei metalli, invece, è in gran misura la conseguenza di un rilancio dei programmi d’investimento in Cina, dove la pandemia è nata ma è ora circoscritta in poche grandi città.

L’ufficio studi della Bank of England ha condotto una ricerca in cui conclude che un anno dopo la fine della pandemia si è di solito in inflazione. Un aumento rapido dei prezzi si verificò dopo la “peste nera” del tardo Medioevo: carenza di beni essenziali e corsa all’accaparramento. Un lavoro di Robert Barro e di suoi colleghi dell’Università di Harvard ha studiato meticolosamente l’inflazione che ha fatto seguito alla influenza “spagnola” del 1918-20 e che è stata una delle determinanti dell’avanzata di movimenti autoritari in numerosi Paesi europei. Tensioni inflazionistiche provenienti dall’offerta non si combattono con restrizioni monetarie, che anzi potrebbero accentuarle, ma con una politica della moneta a sostegno della produzione, come quella messa in atto dalla Bce sin dall’inizio della pandemia.

Andiamo ora ai mercati finanziari, ossia a quello americano che fa essenzialmente da capofila per gran parte dell’area Ocse. L’azionario Usa è arrivato a livelli “eccessivi” tanto che si deve temere una flessione o financo una fuga verso altri impieghi? Gli indici tradizionali possono suggerirlo soprattutto se si guarda allo Standard & Poor 500 e i livelli record segnati nell’ultimo anno (specialmente la P:E Ratio, il rapporto tra la quotazione azionaria e gli utili aziendali annuali), nonostante la pandemia e la conseguente contrazione dell’economia. Le quotazioni appaiono elevate ma non eccessive se si utilizza come indicatore il Cape, sviluppato da Robert Shiller una dozzina di anni fa.

Il Cape ha al numeratore l’andamento della quotazione azionaria “corretto” per tenere conto dell’andamento dei prezzi al consumo e al denominatore la media degli azionari negli ultimi dieci anni, anche essa “corretta” in base all’andamento dei prezzi al consumo. Rispetto alla P:E Ratio, il Cape ha il vantaggio di smussare l’andamento degli utili, spesso soggetti, a volte anche per mere ragioni contabili e tributarie, a forti fluttuazioni annuali. Adesso il Cape è attorno a 35, un livello elevato ma molto più basso del 46 toccato il 24 Marzo 2000, in piena esuberanza per i programmi espansionistici annunciati dal Governo Trump e prima del riaggiustamento avvenuto nel 2020. Soprattutto resterà elevato sino a quando le prospettive di impieghi alternativi resteranno scoraggianti. L’immobiliare è fiaccato dalla pandemia e l’obbligazionario è caratterizzato da rendimenti dei buoni del Tesoro decennali Usa attorno all’1,4%.

Tuttavia, negli Stati Uniti, come in gran parte del resto del mondo, dall’inizio dell’anno a fine febbraio, i rendimenti dell’obbligazionario sono in aumento; per intenderci di 0,4 di punto percentuale negli Stati Uniti, rispetto ad un punto percentuale e mezzo in Brasile, a quasi un punto percentuale in Canada, allo 0,3 di punto percentuale circa in Germania ed Italia. L’aumento dei rendimenti dell’obbligazionario sono un segnale di fiducia nell’andamento in prospettiva dell’economia reale, una ripresa a cui si accompagna quasi sempre un aumento dei prezzi. È tuttavia molto, molto moderato tale da indicare una possibile inflazione al di sotto, però, di quel 2% l’anno, che rappresenta l’obiettivo statutario della Bce.

Difficile, quindi, pensare a “ritocchi” al Consiglio Bce di domani.

 

 

 

 

 

 


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