Pandemia e spoliazione economica stanno affossando un popolo che potrebbe essere tra i più ricchi del mondo e si ritrova invece ad ingrossare le classifiche di quelli più miserabili. Nel cuore dell’Amazzonia nessuno sa quanti sono i morti e i contagiati. Una tragedia nella tragedia. E intanto si pensa alle prossime elezioni presidenziali, come se fossero uno dei tanti tornei calcistici che si disputano in Brasile. L’analisi di Gennaro Malgieri
Il Brasile ha registrato nelle ultime ventiquattr’ore 2289 morti di Covid-19 ed oltre 79000 nuovi contagi. Le terapie intensive sono al collasso. Lo ha rivelato il Consiglio della segreteria di salute (Conass). Si tratta del numero più alto di vittime in un giorno dall’inizio della pandemia. Il bilancio totale delle vittime sale a 268.370 a fronte di 11.122.429 casi accertati.
Il bilancio dei morti provocati dal coronavirus in America Latina e nei Caraibi ha superato quota 700mila, secondo il conteggio dell’agenzia di stampa Afp. Nel complesso, i 34 Paesi della regione hanno registrato 700.022 decessi dall’inizio della pandemia a fronte di 22.140.444 casi di contagio.
In questo contesto l’ex presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva non esclude di candidarsi come avversario di Jair Bolsonaro alle elezioni del 2022, anche se al momento preferisce restare nel vago: “Non ho la testa per pensarci”, ha detto, prendendo tempo.
Ma non è solo la pandemia a condizionare le scelte politiche ed il malessere del Brasile. C’è dell’altro che sta distruggendo questo meraviglioso Paese dove la criminalità domina incontrastata e le malversazioni politiche si può dire che sono entrate in Costituzione, grazie al presidente Jair Bolsonaro e i suoi predecessori Lula e Dilma Rousseff finiti politicamente per motivi giudiziari.
Il Brasile sta morendo per l’avidità dei politici alleati alle grandi famiglie agro-industriali che dominano il Paese. E così, pandemia e spoliazione economica stanno affossando un popolo che potrebbe essere tra i più ricchi del mondo e si ritrova invece ad ingrossare le classifiche di quelli più miserabili.
Qualche tempo fa ci si domandava a chi appartenesse l’Amazzonia. Jair Bolsonaro, con l’arroganza che lo distingue, ci tolse ogni dubbio intervenendo con un discorso politicamente osceno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel quale sostenne che “l’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità, e nemmeno il polmone del mondo”. Aggiunse, rincarando la dose, che quelle che si raccontano sarebbero “tutte frottole”, in quanto la regione “tra l’altro è praticamente intatta”. Dunque, invitò a non credere ai media, ma a recarsi da quelle parti, nella foresta cioè, per “vedere con i vostri occhi”. Come se fosse facile. Come se nessuno avesse già esplorato accuratamente l’Amazzonia, e non da quando sono divampati gli incendi che la stanno distruggendo. Come se le denunce decennali dei popoli che l’abitano e che stanno letteralmente morendo, sia per malnutrizione che per la pandemia da coronavirus, non avessero raggiunto con il loro grido i quattro angoli della Terra dai quali, va detto con sgomento , nessun governante si è mosso per tutelare l’integrità dell’ecosistema amazzonico e degli indigeni che la popolano (sempre di meno, purtroppo).
Bolsonaro, un populista d’acciaio, non è uomo che si commuove facilmente. Incontentabile, ha pure aggiunto: “Questo o quel Paese che invece di aiutare ha creduto alle bugie dei media si è comportato con spirito colonialista. Si è messa in discussione la nostra sovranità, la cosa più sacra che abbiamo, si è arrivati all’assurdo di proporre sanzioni al Brasile”.
Ecco la parolina magica, il passe-partout che apre perfino i cuori più duri: sovranità. Quella del Brasile, naturalmente, dimenticando le sovranità di altri otto Paesi che condividono il destino dell’Amazzonia e che la pensano in maniera diversa da Bolsonaro o, comunque, non hanno fatto della questione un elemento propagandistico al fine di coprire interessi rilevanti che minacciano la grande foresta sudamericana.
Interessi lontani da quei luoghi e che – essi sì – sono imputabili di colonialismo a cominciare dall’appropriazione del caucciù, sottraendolo agli indios e costruendo, al fine di illecito arricchimento, interminabili autostrade che distrutto milioni di ettari di territori oggi perlopiù destinati agli allevamenti intensivi che provocano emissioni di Co2 altamente inquinanti.
Bolsonaro, che ritiene, di rappresentare evidentemente in nome di una “sovranità delegata” del tutto arbitraria, Colombia, Venezuela, Guyana, Guyana francese, Suriname, Bolivia, Perù, Ecuador, non si rende conto della responsabilità che si assume assolvendo gli incendiari che vogliono impadronirsi dell’Amazzonia per ricavarne profitti economici altissimi e condannando i residui popoli indigeni, dimenticati da tutti, soltanto da qualche tempo rappresentati per quel che sono: semplicemente esseri umani custodi di ancestrali tradizioni, dediti all’agricoltura per pura sussistenza e conservatori della stessa foresta della quale sono figli.
Negli anni Ottanta vennero affiancati nella loro pacifica resistenza agli sfruttatori degli alberi della gomma e ai costruttori di autostrade dal “seringueiro” Chico Mendes, sindacalista che si batteva contro la deforestazione dell’Amazzonia: riuscì a riunire in un’assemblea permanente della sua città, Xapuri, tutte le componenti politiche, sociali e religiose della comunità, ma senza ottenere l’appoggio delle formazioni politiche ufficiali, incluso il proprio partito di sinistra, il Movimento democratico brasilero, a testimonianza della dipendenza dal potere – in vario modo declinato – delle grandi conglomerazioni finanziarie che avevano messo gli occhi sull’Amazzonia e ne studiavano lo sfruttamento intensivo.
Chico Mendes era evidentemente un ostacolo da rimuovere: minacciato, arrestato, torturato, perseguitato in vario modo anche con l’allestimento di processi-farsa, il 22 dicembre 1988 venne assassinato da due rancheros. Due anni dopo, Darly Alves da Silva, proprietario terriero e allevatore, con il quale Mendes si era scontrato più volte, riconosciuto come mandante dell’omicidio, venne condannato a 19 anni di prigione, mentre suo figlio, Darci, ottenne la stessa pena per esserne stato l’esecutore materiale.
Da allora, si può dire, che la “guerra amazzonica” è entrata nella fase più cruenta. E tanto i governi di sinistra quanto di destra hanno avuto oggettive responsabilità nell’escalation di violenze, soprusi, devastazioni, mentre il mondo ha pressoché assistito impassibile ad uno scempio che soltanto oggi viene messo in luce più per la debolezza politica e culturale di un Bolsonaro manipolato dall’alta finanza che per la forza delle nazioni libere che dovrebbero denunciare con maggior vigore non soltanto il governo di Brasilia, ma coloro che al di fuori dei confini sudamericani fanno affari, ben protetti ovunque, bruciando l’Amazzonia e contribuendo a rendere il mondo un posto peggiore, invivibile, tormentato dal rischio della catastrofe ambientale sulla quale si giocheranno i destini dell’umanità.
No, gli indios non sono rappresentati, come sostiene Bolsonaro capovolgendo lo stato delle cose e spudoratamente mentendo per assolversi dalle sue oggettive responsabilità, da pochi soggetti “manipolati dai governi stranieri nella guerra per far avanzare i propri interessi sulla foresta”. Ma fidano sulla forza delle loro ragioni per non sparire. E se qualcuno comincia a prenderli sul serio, è un buon segno. Anche se la disperazione che ha portato in giro per l’Europa nella primavera del 2019 l’anziano capotribù Raoni Metuktire (candidato al Nobel della Pace dopo mezzo secolo di lotte per salvare il suo popolo), ricevuto tra gli altri dal Papa, non ha fin qui prodotto gli effetti immaginati, a cominciare da una presa di coscienza delle nazioni e dei governi su quanto tragica e terribile sia la condizione dell’Amazzonia e di chi la popola. Bolsonaro, abilissimo nel cambiare le carte in tavola, contrappone a chi difende la propria terra e le tradizioni alle quali sono legate genti antiche e gentili, la prospettiva di un non precisato “sviluppo e progresso” attraverso – parole sue – lo sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie dell’Amazzonia. È questo il suo obiettivo. E per raggiungerlo deve distruggere ciò che da milioni di anni esiste e costituisce non il patrimonio del Brasile, territorio costituitosi in nazione qualche secolo fa, e scoperto soltanto alla fine del Quattrocento, ma proprio di quell’umanità alla quale il presidente populista (ed anche abbastanza ignorante) intende negare la “proprietà” dell’ultima foresta pluviale rimasta sulla Terra.
Chiedersi di chi è l’Amazzonia è spregevole. Ancor di più lo è il disinteresse per le ricadute della sua distruzione sul già fragile ecosistema. Ma è insopportabile che nessuno si chieda che fine stiano facendo i popoli che l’hanno fin qui preservata. Da quel che si sa sono quasi estinti. Un genocidio silenzioso che ha colpito più di tutti l’antica “nazione” degli Yanomami.
Una grande tribù della quale ci si disinteressa da almeno venticinque anni, da quando un reportage ne lumeggiò parzialmente la precaria esistenza ed il pericolo della sua imminente condanna a morte. Non si mosse nessuno. Si registrò una sola interrogazione parlamentare in Italia, fu assordante il silenzio da parte delle istituzioni europee e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Il problema vasto e decisivo per le sorti dell’umanità, afferisce in realtà, al quasi sempre negato tema della tutela dei diritti dei popoli portatori di differenze culturali, tradizioni religiose, usi civici, costumi e sensibilità artistiche tutt’altro che trascurabili. Temi poco glamour nell’universo del “politically correct”.
Gli Yanomami non fanno eccezione. I pochi che restano decimati dalla pandemia, popolano le rive del Rio Branco e Catrimani nello stato del Roraiama, nel nord del Brasile. Si estinguono a causa di malattie contratte dalle contaminazioni con i nuovi colonizzatori, degli incendi, della deforestazione selvaggia, e in conseguenza dello sfruttamento delle risorse naturali.
Già negli anni Novanta subivano gli effetti delle speculazioni economiche della foresta in cui vivevano: erano rimasti soltanto in dodicimila; oggi non si sa quanti siano, come pure si ignora quante persone popolino le cinquecentoquarantaquattro aree tradizionalmente abitate dagli indios.
La comunità internazionale, non soltanto dunque i governi brasiliani, nelle sue rappresentanze più complesse, a cominciare dall’Onu, è oggettivamente complice da decenni degli speculatori che si arricchiscono sulla pelle di chi non ha voce nell’immensa regione sudamericana “riscoperta” come gigantesca fonte di guadagno facile.
Paradossalmente, bruciata vale anche di più. Il neo-colonialismo liberista ed il globalismo che vorrebbe esportare, nel nome dell’omologazione, i miserabili gadget occidentali laddove, come in Amazzonia, non se ne sente alcun bisogno, hanno fatto enormemente più male dei colonizzatori spagnoli e portoghesi del XVI secolo.
Intanto il Covid sta mietendo vittime. La morte è di casa nelle grandi città dove avvengono i conteggi quotidiani. Mentre nel cuore dell’Amazzonia nessuno sa quanti sono i morti ed i contagiati. Una tragedia nella tragedia. E intanto si pensa alle prossime elezioni presidenziali, come se fossero uno dei tanti tornei calcistici che si disputano in Brasile.