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McKinsey? È un’opportunità per la Pa, basta birignao ideologico

Che cosa c’è di male se la Pubblica Amministrazione ricorre al supporto di una consulenza aziendale di qualità? Nel caso della McKinsey il Mef ha già chiarito i limiti e il perimetro in cui dovrà intervenire il contributo della società. Di certo non si chiederà agli uomini di una delle big four della consulenza aziendale di stilare il documento del Pnrr. L’intervento di Antonio Mastrapasqua, manager d’azienda ed ex presidente Inps

Se fosse stata solo la sciocchezza di Yanis Varoufakis, poco male. Mario Seminerio, a proposito dell’ex ministro delle Finanze greco ha commentato lapidariamente: “Un noto e disinformato bugiardo in azione”. Il timore è che, come accade sovente, la malapianta possa attecchire su terreni fertili, non solo per le sciocchezze, ma soprattutto accoglienti nei confronti dei riflessi condizionati che guardano al privato come a una colpa.

Che cosa c’è di male se la Pubblica Amministrazione ricorre al supporto di una consulenza aziendale di qualità? Nel caso della McKinsey il Mef ha già chiarito i limiti e il perimetro in cui dovrà intervenire il contributo della società. Di certo non si chiederà agli uomini di una delle big four della consulenza aziendale di stilare il documento del Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza). Il Recovery Fund sarà tutto nelle mani esperte e autorevoli del governo di Mario Draghi. Il premier non ha nulla da invidiare ai McKinsey boys riguardo a conoscenze e competenze della macchina europea né delle organizzazioni aziendali.

C’è piuttosto da comprendere il valore e l’opportunità di fare un intelligente ricorso alla consulenza anche da parte delle aAmministrazioni pubbliche. Cosa che avviene abitualmente ad ogni latitudine.

Secondo i dati della Federazione europea delle società di consulenza (Feaco), in Francia oltre 500 contratti di consulenza attivati dalla Pubblica Amministrazione hanno fruttato circa 650 milioni di euro a tali società, pari al 10% dei loro ricavi annuali. “Ciò pone la Francia davanti a Italia e Spagna in termini di spesa”, precisa l’inchiesta Feaco, “ma dietro al Regno Unito e alla Germania, dove la spesa pubblica per i consulenti è rispettivamente di 2,6 e 3,1 miliardi di euro”.

Il primo ad aprire le porte del governo francese ai big della consulenza è stato Nicolas Sarkozy, che dopo la vittoria elettorale nel 2007 assunse McKinsey, Deloitte, Cap Gemini, Boston Consulting Group e Accenture “per rendere lo Stato francese efficiente in termini di costi”, spendendo 250 milioni di euro in sette anni. Soltanto un assaggio rispetto a quello che ha poi fatto Macron, coinvolgendo le società di consulenza anche nel lavoro legislativo.

La Francia che vanta – a torto o a ragione – la più efficiente scuola di alta burocrazia in Europa, non si vergogna di chiedere un supporto a chi fa questo lavoro abitualmente per le aziende private. Appunto. Perché una grande organizzazione aziendale privata si rivolge alla consulenza esterna? Per sfiducia nei confronti delle proprie risorse interne? Certamente no. Anzi, per contaminare positivamente i propri collaboratori con esperienze accumulate al di fuori della storia aziendale. La consulenza, la buona consulenza aziendale, fa crescere. Moltiplica la capacità di guardare con occhi nuovi la propria organizzazione.

Il “change management” per definizione deve essere vissuto con stimoli diversi da quelli che provengono dall’interno dell’azienda. È la ricchezza dell’innovazione. È il dinamismo della crescita. È la forza del cambiamento. Da sempre nelle imprese private. Ma i dati Feaco dimostrano che è così ormai anche per i governi dei principali Paesi, non solo europei.

Le esperienze in Paesi esteri, nonché le dimensioni del mercato della consulenza nel settore pubblico in tali Paesi (come attestano peraltro i dati Feaco) dimostrano “come il concorso dei consulenti al sostanziale cambiamento della Pubblica amministrazione si sia rilevato di assoluto rilievo ed in piena sinergia con le forze interne allo stesso sistema pubblico”, scrive un position paper di Assoconsult per una delle ultime edizioni del ForumPa. Nel contesto italiano la “frattura” tra istituzione e consulenza (alimentata da campagne “diffamatorie” supportate da un apparato che, “minacciato”, rischia di avere poco interesse ad un processo di cambiamento e semmai alza le cortine dell’autodifesa) è aggravata dallo scarso ricambio “generazionale” all’interno della Pubblica amministrazione stessa, generato dai blocchi del turn-over divenuti ormai una patologia cronica.

L’integrazione pubblico-privato è un valore, non una iattura. D’altronde nessuno si scandalizza per le consulenze personali, che sono all’ordine del giorno – da sempre – per ogni Amministrazione pubblica, dal Comune al ministero. Le risorse esterne da associare alle squadre di governo sono una componente essenziale di ogni amministrazione. La stessa esperienza del Cts (il Comitato tecnico scientifico) insediato per fare fronte alla pandemia è figlia di questa inevitabile (e auspicabile) integrazione.

Ma quando si nominano le grandi società di consulenza c’è chi storce il naso. Perché? Rischia di essere un birignao ideologico che fa male alla comunità dei cittadini, perché rischia di privare i propri governanti di positive iniezioni di novità. E rischia di privare i lavoratori degli uffici pubblici di quella esperienza di crescita professionale che da sempre viene costruita nelle aziende private, anche grazie alle risorse interiorizzate tramite le grandi consulenze.

Sarebbe il tempo di vedere la vita pubblica con una laicità capace di perseguire solo il bene comune. La collaborazione tra pubblico e privato è il destino di ogni società civile, che voglia accettare e vincere le sfide della sostenibilità.



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