“Che gli adulti non abbiano paura di fare gli adulti, offrendo strumenti ai giovani per entrare il prima possibile nella società dando loro la voce, quella che ora non hanno”. Il voto ai sedicenni sarebbe uno di questi. Conversazione con Francesco Clementi, costituzionalista e professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia
“Dobbiamo essere il partito dei giovani. Se non riusciremo a coinvolgere i giovani io avrò fallito il mio obiettivo”. Queste parole sono state pronunciate nella giornata di domenica 14 marzo da Enrico Letta, nel suo discorso programmatico prima dell’elezione come nuovo segretario del Partito democratico. Tra i temi toccati dal neo segretario, anche quello dell’estensione del diritto di voto ai sedicenni, più volte affrontato dalla politica italiana, ma mai messo in pratica. Formiche.net ha parlato di questa possibilità con Francesco Clementi, costituzionalista, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, il quale non solo auspica una maggiore apertura della politica verso le giovani generazioni, ma sottolinea i benefici che ne conseguirebbero.
Professore, è il tempo del voto ai sedicenni?
Sì, lo è. E lo è innanzitutto perché da tempo avremmo dovuto dare l’elettorato attivo e passivo ai diciottenni del nostro Paese. Ragioniamo insomma dei sedicenni perché siamo già in ritardo con i diciottenni. E mentre il mondo cambia, noi siamo fermi ancora ad un tempo superato. Invece bisogna quanto prima invertire la rotta, mettendo i giovani in condizione di contare per le scelte strategiche del Paese. Altrimenti questo sarà sempre un Paese per anziani, non per giovani.
Quando nasce il dibattito sul voto ai sedicenni, in Italia?
Il voto ai sedicenni nasce nel dibattito italiano alla luce del problema demografico. L’Italia è un Paese anziano, il terzo più anziano al mondo, e le differenti età di elettorato attivo e passivo che qualificano il nostro bicameralismo, si fanno sentire, producendo, in ragione dei diversi indirizzi di voto e di prospettive tra le generazioni, maggioranze diversificate, non di rado incoerenti ed irrazionali, tra due Assemblee che danno entrambe la fiducia. E già la doppia fiducia nel panorama del costituzionalismo stabilizzato è – per dirla con un paradosso – un “lusso mondiale”. Se esso viene pure incentivato nella sua potenziale incoerenza grazie alla diversità di elettorati, il risultato non può che essere schizofrenico. E tutti ne paghiamo il prezzo, innanzitutto le giovani generazioni che subiscono le politiche per un Paese di anziani.
Ci spieghi meglio.
Beh, mi riferisco, in particolare, all’età per eleggere ed essere eletti al Senato, la cui asimmetria con la Camera, un tempo pesava assai poco ma oggi, nella decrescita demografica che abbiamo, pesa moltissimo.
Cosa ci dice, allora, la demografia?
La demografia ci porta in dote il tema di un Paese che è più vecchio e con una struttura istituzionale che chiede sostanzialmente alla parte meno dinamica dell’ordinamento di decidere, e alla parte più dinamica – che è però anche quella decisamente minoritaria in termini numerici – di non decidere, oppure di poter decidere solo in parte, alla Camera e non al Senato. Tutto perché il rapporto tra elettorato attivo tra Camera e Senato è squilibrato.
Tradotto, significa che per essere eletti alla Camera dei deputati l’età non può essere inferiore a 25 anni, e al Senato il requisito sale a 40 anni, mentre l’elettorato attivo è invece la maggiore età, quindi 18 anni. Cosa comporta questo squilibrio?
Facciamo nuovamente un passo indietro: nella fase di crescita degli anni ’60 i giovani erano progressivamente la maggioranza, e negli anni ’70 sono stati ampiamente la maggioranza degli elettori. Oggi invece l’attuale sistema toglie ai giovani la possibilità di poter incidere nelle decisioni. Quindi è la demografia che determina la necessità di riequilibrare il problema del voto per i giovani, perché le decisioni di indirizzo del Paese per lo più sono in mano a una generazione che ha meno futuro di quello che normalmente i giovani hanno. E questo produce differenze notevoli della definizione dell’agenda delle politiche, prima che della politica, del Paese, inevitabilmente rallentando ogni spinta al futuro e alle scelte che esso comporta. Da questo primo punto poi ne consegue un secondo.
Quale?
Altri Paesi europei hanno già una legislazione in favore di un abbassamento dell’età del voto, non solo nella dinamica diciottenni, ma anche dei sedicenni. Penso all’Austria, alla Grecia, Malta, l’Ungheria e anche guardando fuori dall’Europa si trovano altri casi simili: dal Brasile all’Argentina fino all’Indonesia. C’è un quadro generalizzato dei modelli democratici in Europa e fuori dall’Europa che sposta l’asse dell’indirizzo decisionale che il voto esprime in capo alla generazione più dinamica, quella che cerca appunto di avere una società più veloce e reattiva.
Ecco, per fare una ristrutturazione del sistema decisionale di questa natura in Italia, però, ci sarebbe bisogno di una riforma Costituzionale…
La riforma costituzionale in questo Paese, inutile dirlo, vuol dire affrontare una sorta di navigazione tra Scilla e Cariddi, posto che la revisione dell’elettorato attivo e passivo passa attraverso i quorum previsti dall’articolo 138 della Costituzione, che sono quorum importanti in termini parlamentari, ma che con una maggioranza come quella che oggi sostiene il governo Draghi possono essere facilmente approvati e superati.
Del voto ai sedicenni, poi, hanno parlato diverse forze politiche nel corso degli anni: lo stesso Pd con Veltroni nel 2007, ma anche la Lega e il Movimento 5 Stelle.
Certo, perché i giovani non hanno colore.
Con quale veicolo normativo fare approvare una modifica di questo tipo?
In Parlamento c’è già una proposta in tema, sui diciottenni, in parte già approvata, si potrebbe partire quindi da lì.
Come?
O estendendo da 18 a 16 nel testo in discussione, oppure approvare – è sarebbe la cosa più rapida – la riforma per far votare al Senato i cittadini tra diciotto e venticinque anni di età.
Quale effetto sistemico porterebbe, questa modifica?
Gli effetti sono due. Il primo è di natura generale: spostare l’asse del momento elettorale in capo a una o due generazioni più giovani vuol dire anche avere generazioni più abituate a ragionare sulla politica del Paese e ad incidere nella politica del Paese. Vorrebbe dire quindi porsi il problema di dover baricentrare la discussione pubblica sul futuro e sulle prospettive dell’Italia dovendo parlare a generazioni più giovani, e dunque incentivando e rafforzando il sistema informativo e quello dell’istruzione; insomma di un’educazione civica – che se vi è oggi – deve cominciare prima e deve essere fatta meglio. Perché appunto i giovani potrebbero e dovrebbero entrare nella dinamica della vita sociale e politica del Paese molto prima.
Il secondo effetto, invece?
L’allineamento dell’elettorato passivo e attivo alla Camera e al Senato (mi riferisco ai diciottenni, naturalmente) potrebbe consentire, come dicevo, di ridurre la distanza nella formazione della maggioranza parlamentare, perché sappiamo che spesso gli elettori della Camera producono dei risultati molto diversi da quelli del Senato, che produce una asimmetria tra le due camere quando si devono costituire i governi.
Questo allineamento degli elettorati può migliorare la qualità delle politiche?
Nel passaggio dalla politica alle politiche si potrebbe riscontrare un miglioramento perché le renderebbe più vicine alle generazioni che hanno come prima necessità la costruzione e la ricerca del futuro. Generazioni che come Enea si caricherebbero sulle spalle, noi, i padri, e ci porterebbero nel loro futuro, trascinando anche il Paese in questo processo.
Eppure questa proposta ha anche dei detrattori…
Su questo vorrei essere molto chiaro: chi nutre una sfiducia sui sedicenni dovrebbe innanzitutto nutrire una sfiducia sui quarantenni, sui cinquantenni, sessantenni e settantenni. Non chiediamo ai giovani elettori che, prima di votare, debbano essere “adulti” nei loro comportamenti, cioè essere informati o avere esperienza. Perché non soltanto ai maggiori di 18 anni non si chiede di essere informati o preparati ma non di rado – lo sappiamo bene – il ritardo di tanti nell’entrare nella vita pubblica è il frutto del fallimento dei processi cognitivi che le società mettono in campo, a partire dalla scuola, che è il pilastro essenziale, per dare loro mezzi e strumenti adeguati ed idonei ad essere cittadini all’altezza della sfida del loro tempo. Per cui, nell’epoca del disincanto democratico, pensare che questa politica sia capace di attrarre le nuove generazioni in sé, costruendo il voto come una conquista da conquistarsi, è francamente ipocrita da parte degli adulti. Serve una leva – la riduzione dell’età – che migliori la qualità della proposta sociale in sé della politica.
E allora?
Pensare al tempo stesso di non dare alle nuove generazioni diritto di accesso alla vita pubblica, tramite il voto appunto, proprio perché dovrebbero essere molto più preparate di quanto sono ora, da un lato è un pregiudizio, perché non è che la politica degli adulti è migliore, dall’altro è ipocrisia perché per entrare in questo dibattito dovrebbero essere messi in condizione di starci, cosa che appunto la politica non gli dà: né mezzi, né modi, né strumenti. Allora delle due l’una: o siamo quelli che “la politica è una cosa da grandi”, ma allora ci si comporta da adulti e non mi pare che negli ultimi anni la politica degli adulti sia stata all’altezza della sfida.
Oppure?
Oppure si immagina che la politica sia una cosa di tutti e che per prepararsi alla politica prima si comincia a vivere politicamente la propria partecipazione alla vita associata, pubblica, di tutti, prima noi riusciamo a costruire un Paese migliore. Questo come si fa? Tramite la scuola, tramite l’istruzione, tramite i mezzi informativi, tramite un percorso. E allora: che gli adulti non abbiano paura di fare gli adulti, offrendo strumenti ai giovani per entrare il prima possibile nella società dando loro la voce, quella che ora non hanno.