Ad ora per contrastare l’aumento del debito pubblico la risposta è in una vera politica economica, che non sia la semplice giaculatoria dell’austerità. Più facile a dirsi che a farsi, almeno fin quando nel ceto politico italiano, specie di sinistra, prevarranno le preferenze per l’assistenzialismo e un peloso provvidenzialismo. L’analisi dell’economista Gianfranco Polillo
In attesa di conoscere nel dettaglio il contenuto del nuovo decreto legge, per le nuove previdenze a favore delle categorie colpite dal flagello della pandemia, conviene soffermarsi sui dati di contesto. Non prima di aver sottolineato alcune novità: non più Dpcm, ma il decreto legge che sarà sottoposto al vaglio del Parlamento. Non più “ristori”, ma “sostegni”. Non solo una variazione nominalista, ma un cambiamento dei parametri d’intervento, al momento solo annunciati.
Sui quali converrà intervenire una volta che l’inchiostro sul testo del decreto si sarà asciugato e sarà anche noto l’entità dell’ulteriore necessario scostamento di bilancio. Tema, quest’ultimo, che potrà essere meglio valutato, nelle conseguenze più immediate e in quelle prospettiche, proprio a partire dall’analisi di quanto successo in quell’annus horribilis, che è stato il 2020. Durante il quale Giuseppe Conte ha potuto governare (bene, male?) indisturbato, fino alla crisi innescata dalle decisioni di Matteo Renzi.
Il primo dato che balza agli occhi è quello della caduta rovinosa del Pil. Che l’Istat ha indicato nell’8,9 per cento. Un soffio al di sotto delle previsioni governative (Nadef) dell’autunno del 2019, che indicavano, nel programmatico, una caduta arrotondata al 9 per cento. Peggio dell’Italia solo la Spagna, dove la flessione del Pil è stata pari all’11 per cento, (dati Ocse). Nemmeno un mezzo gaudio, per l’Italia, nel mal comune. Nel complesso dell’Eurozona, infatti, la perdita media è stata del 6,6 per cento. Sopra questa soglia solo: Portogallo (-7,6 per cento), Francia (-8,1), Grecia (- 8,2) e, ovviamente, Italia. Ben diversa la situazione della Germania (-4,9 per cento).
Altro elemento di riflessione, l’andamento del deficit di bilancio. Una crescita resasi necessaria per far fronte ai costi della pandemia ed alle chiusure imposte dal lockdown. Il possibile comparato, al momento, è limitato solo ai primi due trimestri del 2020, durante i quali gli squilibri maggiori si sono verificati in Spagna, con un deficit nel primo semestre pari al 5,2 per cento del Pil.
Spagna seguita dalla Francia (4,7 per cento), il Belgio (4,2 per cento) ed Italia, al quarto posto nell’Eurozona, con un valore pari al 3,5 per cento. Ma quei due trimestri erano anche quelli in cui la pandemia non aveva mostrato tutta la sua cattiveria. Alla fine dell’anno, infatti, il deficit italiano risulterà pari al 9,47 per cento del Pil. Per avere un confronto di fine anno con gli altri Paesi dell’Eurozona, occorrerà attendere le elaborazioni dell’Eurostat: ancora non disponibili.
La dimensione del deficit italiano risulta comunque tale da richiedere i necessari approfondimenti. Un balzo indietro di oltre 25 anni. Era, infatti, dal 1994, quando il deficit di bilancio risultò pari al 9,7 per cento del Pil, che non si raggiungeva quella vetta. Allora l’Italia stava uscendo dalla crisi del 1992, che aveva portato alla fine della Prima Repubblica, con tanto di svalutazione monetaria e distruzione di una vecchia classe dirigente. Oggi la crisi è diversa. Il Patto di stabilità e crescita non ha retto alle prove della realtà ed è stato sospeso. Resta comunque l’incognita per gli anni a venire. Se da quei valori se, ed in che modo, si potrà rientrare. Interrogativo che diventa pressante, nel momento in cui l’Italia si appresta a varare un nuovo scostamento di bilancio.
In valore assoluto il deficit di bilancio è stato pari ad oltre 156 miliardi di euro: 128,5 miliardi in più rispetto a quello dell’anno precedente. Cifre che, ovviamente, fanno impressione. Specie se paragonate ai 191,5 miliardi del Pnrr (Piano nazionale di rilancio e resilienza) di provenienza europea, che saranno tuttavia erogati in un intervallo di sei anni. E sempre che la quota del 30 per cento non sia rivista a ribasso, nel giugno 2022. In un solo anno, quindi, il governo ha ipotecato una spesa che è pari a cinque volte la quota annuale di finanziamenti provenienti da Bruxelles. Di cui il 65 per cento sotto forma di prestiti e il 35 come aiuti.
Il maggior deficit rispetto al 2019 è attribuibile a una riduzione delle entrate pubbliche e a un aumento della spesa. Le minori entrate hanno contribuito per il 42 per cento al maggior deficit. La parte del leone l’hanno fatta le imposte indirette, che hanno contribuito per il 54 per cento al minor gettito, per un importo pari a 28 miliardi. A monte di queste cifre la forte caduta dei consumi, che hanno portato ad una forte diminuzione dell’Iva e delle accise.
In controluce la rovina di molti commercianti. Le imposte dirette, quindi soprattutto Irpef, vi hanno contribuito in misura limitata: appena il 10 per cento, per un importo pari a poco più di 5 miliardi di euro. Nonostante la crisi, in definitiva, il tassametro fiscale ha continuato a funzionare. Idem per i contributi sociali che vi hanno contribuito per un 26 per cento: quasi 14 miliardi. A dimostrazione di quanto siano stati numerosi i tentativi di rinviare il più possibile il momento della verità dei possibili licenziamenti. E quindi Cig, smart working e via dicendo.
Sul fronte della spesa, che ha superato di circa il 39 per cento, la contrazione delle entrate, quella corrente vi ha contribuito per il 67 per cento: importo pari a circa 47 miliardi. La spesa in conto capitale è stata pari al 37 per cento. La quadratura è stata assicurata da una riduzione della spesa per interessi, che ha inciso in positivo per circa il 4 per cento e un importo pari a 3 miliardi. La spesa per le prestazioni sociali è stata pari al 76 per cento della maggiore spesa corrente. A dimostrazione del fatto che se si restringe la base dello sviluppo, alcune dinamiche rischiano di esplodere. Fino a mettere in discussione la stessa civiltà del welfare.
Il combinato effetto di questi due elementi – la caduta del Pil e la crescita del deficit – ha fatto lievitare il debito pubblico. Cresciuto in un anno di circa 160 miliardi. Una cifra consistente, ma non così spaventosa se si considera che la crescita rispetto al 2019 è stata pari al 6,6 per cento. Valore che fa a pugni con il ben più preoccupante dato dell’incremento del rapporto debito/Pil. In un solo anno lo scarto è stato pari a 20,9 punti. Quel 6,6 per cento in più, nel valore nominale del debito, rappresenta, tuttavia, un piccolo record degli ultimi anni. Per aver qualcosa di simile è necessario retrocedere fino al 1995, quando lo scarto rispetto all’anno precedente fu pari al 7,7 per cento.
Ben più drammatico il confronto in termini di rapporto debito/Pil. Si tratta dell’incremento più alto a partire dall’inizio degli anni ’80. Nel 2009, anno di crisi profonda, lo scarto da un anno all’altro fu di 10,4 punti. Ma allora gli spread, come si ricorderà, la facevano da padrona, fino a determinare negli anni successivi la crisi del governo Berlusconi. Si tratta, allora, di comprendere quali siano state e in che misura le determinanti che hanno più contribuito a questa impennata. Tenendo conto dell’intervenuta caduta delle entrate, a seguito di una decrescita ben poco felice.
Dai dati forniti dall’Istat è possibile avanzare una simulazione, partendo dai dati reali, vale a dire: debito nominale, rapporto debito/Pil, indebitamento e decrescita del Pil. Dalla caduta del Pil, in termini nominali, sono derivate minori entrate per lo Stato per circa 53,8 miliardi. Che equivalgono a circa il 3,3 per cento del Pil. Se non vi fosse stata questa caduta il debito non sarebbe aumentato di 159,3 miliardi, ma solo di 105,5. Raggiungendo la vetta di 2.516 miliardi contro i 2.570, certificati da Banca d’Italia. Grazie alle maggiori entrate il rapporto debito/Pil si sarebbe leggermente ridotto: passando dal 155,6 al 152,4. Ma questo è ancora poco. Il grosso sarebbe infatti derivato dalla mancata caduta del Pil: quella sorta di effetto meccanico che deriva dal rapporto numeratore (debito) denominatore (Pil).
Se le entrate a bilancio non fossero diminuite, questo avrebbe significato la sottostante invarianza del Pil, invece della sua caduta. Rapportando, allora, il minor debito (152,4 per cento del Pil) a prodotto interno dell’anno trascorso (invarianza e non caduta del Pil), il nuovo rapporto debito Pil sarebbe stato pari al 140,5 per cento, contro il 155,6, che è stato certificato. Una differenza di ben 15,1 punti, di cui 12,1 (pari all’80 per cento) per l’effetto meccanico richiamato in precedenza e 2,9 per le maggiori entrate derivanti dal maggior tasso di crescita.
I calcoli sono un po’ complicati e di questo ci scusiamo con il lettore, ma la verità è di una semplicità disarmante. La via maestra, in termini di maggiore efficacia e minore sconquasso sociale, per neutralizzare l’eccesso di debito pubblico, è aumentare il tasso di crescita complessivo del Paese. Quindi avere ciò che finora è mancata: vale a dire una vera politica economica, che non sia la semplice giaculatoria dell’austerità. Più facile a dirsi che a farsi, almeno fin quando nel ceto politico italiano, specie di sinistra, prevarranno le preferenze per l’assistenzialismo e un peloso provvidenzialismo.