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Birmania, perché l’uscita dal tunnel è lontana. Scrive Scotti

“Anche io mi inginocchio sulle strade della Birmania e dico ‘cessi la violenza’”, ha detto Bergoglio riguardo la situazione drammatica del Paese. Tra contatti Usa-Cina delle ultime ore, Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue atteso per lunedì, pubblichiamo una lettera di Vincenzo Scotti, presidente dell’Associazione Italia-Birmania insieme, sugli interventi possibili per far intravedere una soluzione

Le atrocità che in queste settimane stanno ferendo a morte un intero Paese, la Birmania; colpiscono la brutalità e la assenza di umanità dei militari e delle forze di polizia, cresciute in una cultura che si fonda sulla supremazia militare rispetto al resto della popolazione, soprattutto rispetto alle minoranze etniche e religiose che popolano il Paese.

In questa tragedia, che sembra non avere alcuno sbocco credibile in tempi brevi, la parola di papa Francesco verso coloro che manifestano pacificamente per la democrazia, ha un peso straordinario. I cristiani sono minoranza tra le minoranze e, nonostante questo, la potenza della parola e dei gesti di papa Francesco e del cardinale Charles Maung Bo hanno un peso che travalica enormemente la rappresentanza numerica dei cristiani.

Il papa, capo della Chiesa Cattolica, metaforicamente si inginocchia e apre le braccia per accogliere e difendere, a mani nude, coloro che si sono schierati per la democrazia. Papa Francesco ripete il gesto semplice, ma straordinario, di suor Ann Nu Thawng, della congregazione religiosa di san Francesco Saverio, che a Myitkyina, nello Stato Kachin, si è inginocchiata a mani giunte, di fronte a un plotone di soldati. Lì dove, in un passato neanche tanto lontano, durante la dittatura, la repressione e la discriminazione verso i cristiani è stata pesantissima.

Faticoso, ma straordinariamente positivo è stato il lavoro con le altre religioni, che in questi anni il Cardinale Bo e la Chiesa tutta hanno promosso nel Paese delle pagode, per superare la cultura delle discriminazioni e il linguaggio d’odio su cui militari e monaci buddhisti oltranzisti hanno costruito il loro potere violento. Nel corso della decennale dittatura, le minoranze etniche e religiose hanno subito pesantissime misure discriminatorie. Discriminazioni e violenze che non hanno toccato solo i mussulmani o i mussulmani Rohingya, ma anche i cristiani, soprattutto negli Stati etnici di Kachin, Naga e Cin, visti come rappresentanti di una fede straniera, in contrasto con la politica di “una nazione, una razza, una religione”.

Il viaggio di papa Francesco nel 2017 era stato salutato proprio come un viaggio di speranza verso la pacificazione del Paese. In quella occasione, papa Francesco aveva immediatamente toccato con mano l’arroganza dell’esercito. In un cambio di programma non previsto, la prima persona che papa Francesco incontrò fu proprio il Comandante in Capo delle forze armate, Min Aung Hlaing. Un incontro durato non più di un quarto d’ora, rispetto al quale papa Francesco ebbe a ribadire: “Non ho negoziato la verità, vi assicuro. Ma l’ho fatto in modo tale che lui capisse un po’ che una strada, come era nei brutti tempi, rinnovata oggi, non è percorribile”.

Purtroppo la realtà ha superato qualsiasi previsione. E, forse anche per questo, papa Francesco ha voluto ancora una volta rivolgere lo sguardo e la parola verso quel popolo che lo aveva accolto con la speranza di diventare un Paese pacifico, tenendo a mente anche il dialogo con il comandante in capo delle forze armate che, oggi, uccide un popolo inerme.

La speranza si è infranta ancora una volta nel silenzio del mondo che lancia appelli vuoti e poco coerenti, mentre il papa continua caparbiamente a riportare l’attenzione, di chi può decidere, su questa tragedia. Francesco si rende conto ancora una volta quanto le istituzioni internazionali non siano all’altezza della gravità della situazione.

Lunedì prossimo il Consiglio dei ministri degli esteri Ue, non ottemperando alle richieste legittime del Crph, il Comitato che rappresenta il Parlamento democraticamente eletto, né delle forze sociali e sindacali birmane, approverà una lista di sanzioni inadeguate alla situazione.

Sanzioni che si concentreranno su 11 capi militari senza toccare le loro casseforti. I grandi interessi rappresentati dalle due holding il Mehl e il Mec, sotto il controllo diretto del comandante in capo delle forze armate, del suo vice e di una lista di alti militari e dei loro familiari. Si tratta di 156 imprese in tutti i settori più remunerativi: gas e petrolio, minerario (giada, rubini, metalli rari, uranio ecc.) legno, imprese manifatturiere, assicurative e finanziarie ecc. il cui elenco è stato pubblicato nel rapporto del settembre 2019 “The economic interests of the Myanmar military”, redatto dalla Independent International Fact Finding Mission del Consiglio Onu per i Diritti Umani.

Ancora, e nonostante la straordinaria violenza dell’esercito, non sembra esserci all’orizzonte un barlume di tavolo negoziale. Si vocifera di primi incontri informali di alcuni Paesi asiatici, le cui timidezze sono note, come pure la vicinanza politica, oltre che geografica, con i satrapi militari. Cina, India e Russia, ad oggi, sono più che ferme, anche se questa crisi non giova a nessuno di loro, visto che mette a rischio la sicurezza e la stabilità della intera regione, come pure i loro enormi interessi economici.

Il capo della diplomazia americana si è appena incontrato con il suo corrispettivo cinese, Wang Yi in Alaska. Non si sa ancora se tale incontro sia stato fruttuoso, sia per l’individuazione di un percorso verso l’uscita dal tunnel in Birmania, sia su altrettanto scottanti questioni ma, certo, troppi morti, troppi feriti, troppe sparizioni dovranno insanguinare le strade della Birmania prima che si possa intravedere una soluzione. Forse una attenta analisi di quanto si è fatto in altri Paesi per superare i conflitti potrebbe risultare utile, prima tra tutti l’esperienza della “Commissione Verità e Riconciliazione”, sperimentata in Sudafrica.


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