Il sistema fiscale italiano, tra evasione e distribuzione squilibrata del carico erariale, è un gigantesco colabrodo. Draghi vuole una riforma complessiva del fisco, gli si può forse dare torto? E, allora, la sinistra non dovrebbe meditare?
Quando il Pd, ma più un generale la sinistra, non penserà più che “le tasse sono bellissime” sarà un grande giorno per la vita del Paese. Quella tesi, come si ricorderà, era stata sostenuta da Tommaso Padoa Schioppa, allora ministro dell’Economia del governo Prodi. Uomo mite, precocemente scomparso. Quel pensiero faceva parte di un corredo etico, che aveva poco a che fare con il rigore dell’analisi scientifica.
Fare economia dovrebbe significare, soprattutto, mantenere quella visione d’insieme in cui i vari elementi concorrono a determinare un risultato stabile nel tempo e in grado di favorire una tendenza espansiva. Che è poi la premessa per una più equa ripartizione della ricchezza ed un benessere condiviso.
Con questo non si vuol dire che le tasse non siano necessarie. Sono delle medicine che servono per garantire l’equilibrio complessivo del sistema. Ma come tutte le medicine, vanno assunte con criterio, evitando quegli eccessi che possono portare a forme di accanimento terapeutico. Ed, alla fine, uccidere il paziente.
C’era bisogno di alzare le barricate nel tentativo di evitare la cancellazione di vecchie cartelle erariali, costringendo il Consiglio dei ministri a riconvocarsi più volte? Colpa di Matteo Salvini: ha tuonato Enrico Letta, nel suo continuo disperato tentativo di coprirsi a sinistra.
Ma le grida contro il ricorso ad altri condoni, sono risuonate forti e chiare, al punto da spingere lo stesso a presidente del consiglio ad ammetterlo con franchezza. Salvo precisare: se lo Stato non sa fare il suo mestiere, alla fine soluzioni del genere sono inevitabili.
Ed alla fine così è stato. Argini precisi: importo massimo 5 mila euro, compresi interessi e more. Ed un limite di reddito, pari a 30 mila euro. E così la sinistra, ha dovuto trangugiare un boccone amaro. Sarà indubbiamente un condono, ma lo sarà piccolo piccolo, in grado di passare per la cruna dell’ago, secondo la vecchia parabola evangelica. Riguarderà poi crediti antichi (2000 – 2015) che in qualsiasi struttura di media efficienza sarebbero stati dichiarati da tempo inesigibili. Meglio allora cancellarli. Rettificare il bilancio per rispondere ad un criterio di trasparenza contabile. Una sorta di pulizia di Pasqua, data la coincidenza del periodo: come avveniva un tempo nella tradizione contadina italiana.
Ma considerazioni a parte, da dove nasce questa idiosincrasia, da parte della sinistra, nei confronti del fisco? Ha un fondamento oggettivo, è frutto di un residuo ideologico o non maschera una posizione opportunistica? Visto che dagli 80 euro in poi, si è più volte giocato con i bussolotti del fisco.
La spiegazione postuma è stata sempre la stessa: l’imperativo della progressività. Il che solleva un interrogativo di carattere pregiudiziale: il sistema attuale, da questo punto di vista, è carente? E fino a quanto? Per rispondere è necessaria una prima valutazione di carattere comparato. Non dimentichi di quella grande anomalia della storia patria che fu la presenza, in Italia, del più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Il cuore, oltre che la testa, nel tempio di quel socialismo reale, di cui nessuno lamenta la prematura dipartita. La cui ombra, tuttavia, rimane.
Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, nell’Eurozona, solo tre Paesi (Francia, Austria e Belgio) hanno una pressione fiscale superiore a quella italiana. Ovviamente, per stazza e caratteristiche, il confronto più stringente è con la Francia. Regno del colbertismo ed con un livello dei servizi resi, (il dare dell’avere delle imposte) assolutamente non paragonabile, per qualità ed intensità, a quello italiano.
Nonostante ciò le rivolte dei gilet gialli hanno dimostrato le pene di quel modello, ed un crescente rifiuto sociale. Se poi il confronto si estende ai Paesi della tradizione anglo-sassone la partita diventa ancora più difficile da sostenere. Facile la conclusione: in Italia il livello di reddito sottratto alle imprese ed alle famiglie italiane è di gran lungo superiore agli standard internazionali ed il livello dei servizi decisamente inferiore.
C’è forse una distribuzione squilibrata del carico fiscale? Calcoli seri si possono fare solo al netto dell’evasione fiscale. Che resta, naturalmente, uno dei problemi di fondo delle disfunzioni sistemiche. Da affrontare con riforme adeguate e non con semplici anatemi.
I dati sono quelli forniti dal Mef – Dipartimento delle finanze. Si riferiscono all’Irpef, la madre del sistema fiscale. Il complesso delle imposte indirette forniscono entrate più o meno equivalenti. Anche in questo caso l’evasione la fa da padrone, specie nel comparto dell’Iva. Ma le cause originarie sono legate alle disfunzioni generali del sistema, sempre più disancorato dai sottostanti processi economici e sociali.
Dall’esame delle dichiarazioni del reddito, relativa al 2019, le entrate Irpef teoriche sono risultate pari a 226,6 miliardi di euro, a carico di 40,6 milioni di contribuenti. Quelle effettive, a seguito della giungla delle detrazioni, molto meno: 157 miliardi scarsi, con una differenza di oltre il 30 per cento. Detrazioni che per il 72 per cento vanno a favore dei redditi inferiori ai 75 mila euro l’anno. Il che spiega la difficoltà di una bonifica. Troppo ramificati gli interessi che allignano in quel sottobosco.
Per averne un’idea: il complesso delle detrazioni riduce del 37 per cento il prelievo sui redditi inferiori ai 75 mila euro, mentre sull’ultima classe, i Paperoni, questa percentuale si riduce del 4,5 per cento. Questi ultimi sono il 2,5 per cento dei contribuenti, ma dalle loro tasche deriva il 20,4 per cento delle imposte lorde ed il 28,1 di quelle nette. Per continuare nelle analogie e nei confronti, sempre secondo le stesse fonti, il 50 per cento del gettito effettivo, al netto delle detrazioni e degli incapienti, è dato dall’87 per cento dei contribuenti italiani. Sui quali pesa un’aliquota media del 21 per cento, che corrisponde ad un’aliquota lorda del 26.
L’altro 50 per cento proviene dai ceti più abbienti, con un reddito superiore ai 40 mila euro l’anno, che sono però solo il 13 per cento del totale. Sono forse dati che descrivono una mancata progressività nel sistema fiscale italiano? Francamente a noi non sembra. Al contrario i dati dimostrerebbero il contrario. Tanto più se si analizzano le contropartite. È infatti evidente che la maggior parte dei beni pubblici vendibili (trasporti pubblici, sanità, social housing e via dicendo), che le imposte finanziano, non sono certo appannaggio dei ceti più abbienti. Dati che spiegano quella crescente rabbia borghese, che la sinistra si rifiuta, da sempre, di prendere in considerazione.
La verità è che il sistema fiscale italiano, tra evasione e distribuzione squilibrata del carico erariale, è un gigantesco colabrodo. “Nel caso del fisco, – ha ricordato Mario Draghi, nel suo intervento per la fiducia – per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli.” Gli si può forse dare torto? Ed, allora, la sinistra non dovrebbe meditare?