Potenziamento dell’istruzione in direzioni specifiche, differenti dal passato, e nell’impulso alla generazione di nuovi saperi, frutto della ricerca, e alle loro applicazioni economiche. Il Piano Pnrr dovrebbe rispondere a queste esigenze per una completa riforma dell’istruzione e della ricerca-innovazione. L’analisi di Salvatore Zecchini
La rapida avanzata delle nuove tecnologie nell’economia, come nella società dei Paesi avanzati, insieme al ritardo di sviluppo accumulato dall’economia italiana nel passato ventennio impongono al nostro Paese di investire ingenti risorse nell’innalzamento del livello d’istruzione sin dalla più giovane età e nell’intensificare le attività di ricerca ed innovazione che sono condizioni per assicurarsi un crescente livello di prosperità. Pur, o per malaugurata fortuna, nella drammatica congiuntura della pandemia il compito è facilitato dalle nuove risorse fornite dall’Ue con il programma Next Generation Eu e col Quadro finanziario pluriennale 2021-2027. Giustamente, le risorse sono fornite a condizione di farne il miglior uso e questa volta per garantire un buon risultato sono sottoposte a una più attenta programmazione degli interventi, accompagnata dall’intenso scrutinio di Bruxelles nelle tre fasi ex-ante, in-itinere ed ex-post.
Sebbene si dia priorità agli obiettivi della digitalizzazione e della “transizione verde”, il nucleo centrale di questa strategia di sviluppo risiede nel programma di potenziamento dell’istruzione in direzioni specifiche, differenti dal passato, e nell’impulso alla generazione di nuovi saperi, frutto della ricerca, e alle loro applicazioni economiche. Il Piano Pnrr dovrebbe rispondere a queste esigenze e sta cercando di farlo in un percorso di progressivo affinamento del disegno degli interventi per accrescerne l’efficacia, in particolare definendo le ragioni, i traguardi da raggiungere, i tempi e i costi. Alla prima versione generica del Pnrr sono seguite recentemente schede tecniche che precisano i contorni delle azioni, pur essendo in via di completamento.
Tralasciando l’inglese maccheronico ed approssimativo, i dettagli delle schede evidenziano sia una chiara identificazione delle criticità esistenti nell’attuale sistema di istruzione e in quello di R&I, sia l’impegno ad affrontarle con azioni puntuali e in alcuni casi coordinate tra diversi ministeri. Si scende altresì nei particolari della metodologia di definizione dei costi e si tenta di stabilire i tempi di attuazione, benché con un gran margine di indeterminatezza per l’ampio arco pluriennale che viene indicato. Per molte azioni, il completamento è previsto verso la parte terminale del prossimo quinquennio, aspetto che denuncia difficoltà nell’articolazione delle misure, nella messa in opera sul terreno e nel sistema di governance per via dei passaggi richiesti per arrivare all’approvazione ed esecuzione. Le conseguenze si faranno sentire nei ritardi di erogazione delle risorse e nell’impatto dilazionato sulla crescita, aspetti da non trascurare. È tuttavia positivo che, rispetto alle risorse attuali, quelle assegnate all’istruzione siano state incrementate di 13,7 miliardi contro i 3 miliardi iniziali e quelle per la R&I di circa 10 miliardi contro 1,4 miliardi.
In realtà, le buone intenzioni si scontrano con antiche debolezze e farraginosità di sistema, che frenano l’avanzamento verso efficaci riforme ed efficienza. Confrontando le schede relative alla quarta missione, emerge una notevole differenza di approccio: frammentazione di progetti nella parte relativa all’Istruzione, mentre in quella relativa alla R&I si enuncia il chiaro intento di concentrare gli interventi su un numero limitato di priorità, su progetti ben interconnessi e sullo sviluppo di competenze in funzione delle richieste dei diversi settori economici. Ad esempio, il tema degli istituti tecnici e della formazione professionale ricorre in quattro capitoli (Reform 3.1 e 3.2; Investment 3.1 e 3.2) che potrebbero, invece, essere raggruppati sotto lo stesso titolo con azioni collegate. La trattazione degli istituti tecnici superiori viene distinta dagli altri istituti tecnici sulla base della differente funzione rispetto all’occupabilità. Ma questa dovrebbe essere la finalità dell’intera istruzione tecnica, ovvero di rispondere alle richieste del mondo della produzione e dell’innovazione. Nondimeno è già positivo che il richiamo al ruolo della domanda delle imprese trovi spazio in più progetti, sebbene rimangano da risolvere le difficoltà che negli scorsi anni si sono incontrate nello stabilire la collaborazione scuola-impresa.
Nell’insieme della riforma dell’istruzione si tende a un graduale spostamento dal vecchio approccio, che definisce i contenuti dall’alto (top down) sulla base di una idea dei decisori su quel che dovrebbe essere il patrimonio di conoscenze del giovane, a un metodo dal basso (bottom up), che alla luce delle competenze domandate dall’evoluzione tecnologica e sociale del Paese vuole fornire quel sapere che è funzionale all’inserimento nel mondo produttivo, sia privato che pubblico. Il passaggio è reso arduo dalla necessità di procedere preliminarmente a un esteso ed approfondito cambiamento della formazione dei docenti, nonché dei programmi d’insegnamento, specialmente per dare più spazio all’insegnamento delle discipline Stem. Sulla formazione dei docenti, come sul metodo di assunzione, si prevedono progetti coraggiosi, ma poco si dice sulla riforma dei programmi per sviluppare la parte delle Stem e della digitalizzazione in tutti i corsi, e farne una costante qual che sia l’indirizzo di studi. Nulla è, inoltre, previsto per insegnare a tutti gli studenti impegnati nell’istruzione di livello secondario e terziario gli elementi di base dell’economia e della gestione di un’impresa. Queste conoscenze sono fondamentali in tutti i tipi di occupazione, facilitano la transizione dall’istruzione al lavoro e concorrono alla diffusione della cultura dell’innovazione, dell’avanzamento tecnologico e dell’imprenditorialità.
Un particolare impegno è, invece, dedicato all’orientamento degli studenti nella scelta del corso di studi al fine di indirizzarne un flusso crescente verso le discipline scientifiche. Per quanto importante, quest’azione non è sufficiente allo scopo se non è accompagnata dalla prospettiva di un rendimento di queste competenze superiore a quello delle altre. Senza una politica che incentivi la convenienza di questi studi impegnativi nel confronto con altri meno faticosi ben difficilmente si potranno ottenere quei grandi numeri di competenze domandate dal Paese. Certamente non favorisce l’impegno nelle discipline delle Stem l’appiattamento retributivo tra differenti specializzazioni, se non proprio il dislivello delle retribuzioni, per esempio di un ingegnere, rispetto a quelle relativamente più alte di carriere amministrative ed istituzionali.
Considerazioni simili valgono per il problema dell’elevata percentuale di giovani nullafacenti, i Neet. L’approccio seguito è imperniato solamente sull’attività di orientamento e formazione al lavoro. Ma se non si fornisce una concreta prospettiva di raggiungere un’occupazione adeguatamente remunerata non sembra che si possa aumentare la loro propensione all’occupabilità. Si otterranno, invece, giovani che pur con una formazione aggiuntiva, preferirebbero continuare a dipendere da forme di assistenzialismo pubblico e familiare. Maggior successo avrebbero, piuttosto, politiche pro-attive di spinta al lavoro e di bilanciamento con le varie forme di assistenzialismo.
Per altro verso, va evitato il rischio che l’attività di orientamento al passaggio dalla scuola secondaria all’Università si risolva nel parcheggiare negli studi universitari una massa di giovani che potrebbe trovare sbocchi più convenienti se indirizzati al mondo del lavoro. Come indica l’esperienza americana, molti compiti nei processi di digitalizzazione e nella costruzione dell’economia verde non richiedono competenze al livello di laurea, ma sono sufficienti specializzazioni elevate acquisite nel periodo post-scuola secondaria.
Altra carenza del programma sta nel non prevedere la valutazione dei risultati, né la definizione degli indicatori relativi. Il monitoraggio degli interventi in termini di avanzamento dell’opera e di effetti ottenuti rispetto al traguardo fissato è essenziale per assicurare il successo del progetto. In mancanza di indicatori e di analisi dei risultati sia nella fase di attuazione, sia dopo il completamento si rischia di continuare a investire risorse in direzioni poco fruttuose e di non poterle riorientare su progetti più efficaci.
Tra le maggiori sfide per il successo del programma quella dei meccanismi di governance appare particolarmente difficile, perché coinvolge più organi dotati di autonomia decisionale e perché le esperienze di coordinamento del passato non sono davvero incoraggianti. Nei progetti per la R&I si parla chiaramente di semplificare i processi decisionali e le procedure, nonché di istituire una governance unitaria attraverso comitati interministeriali. Negli interventi per la formazione tecnica e per quella professionale, come per l’apprendistato, la nuova governance appare meno definita nei suoi contorni e nelle procedure, lasciando dubbi sulla possibilità di un’efficace riforma.
Incombe, peraltro, su diverse parti del programma il rischio di sempre: buone riforme negli intenti ma poco incisive nella realtà. Le disfunzioni nel sistema istituzionale del Paese, i problemi di coordinamento e la lentezza o i ritardi nelle soluzioni continuano a costituire una seria ipoteca sull’efficacia d’impatto delle riforme. Ma è ancora presto per esprimere giudizi trattandosi di un lavoro ancora in gestazione.