Se Matteo Salvini ha parlato di riaperture dopo Pasqua, Draghi non ha escluso che così possa essere. Seppure con riferimenti differenti, entrambi hanno a cuore la ripresa di tutte le attività economico-commerciali e della vita dei cittadini. Allora, meglio non esasperare i contrasti, ma lavorare per raggiungere l’obiettivo comune
In principio c’era stata la dichiarazione di Matteo Salvini: “È impensabile tenere chiusa l’Italia anche per tutto il mese di aprile. Nel nome del buonsenso che lo contraddistingue – e soprattutto dei dati medici e scientifici – chiediamo al presidente Draghi che dal 7 aprile, almeno nelle regioni e nelle città con situazione sanitaria sotto controllo, si riaprano (ovviamente in sicurezza) le attività chiuse e si ritorni alla vita a partire da ristoranti, teatri, palestre, cinema, bar, oratori, negozi. Qualunque proposta in Consiglio dei ministri e in parlamento avrà l’ok della Lega solo se prevedrà un graduale e sicuro ritorno alla vita”. Una dichiarazione di guerra nei confronti di Mario Draghi: com’è stata interpretata da quasi tutta la stampa italiana?
Vale la pena, prima di vedere le risposte date dal presidente del Consiglio, nel corso della sua conferenza stampa, procedere all’analisi del testo. Più che un ultimatum, quello di Salvini sembra essere un invito alla solerzia. Si parla infatti della possibile apertura dopo le chiusure pasquali, che non sono in discussione. E già questo è un dato da tener presente. Da quella data, soprattutto sulla base “dei dati medici e scientifici” almeno “nelle regioni e nelle città con situazione sanitaria sotto controllo,” invita a riaprire “(ovviamente in sicurezza) le attività chiuse ecc.”. Non si tratta quindi di una riapertura generalizzata, ma solo nei casi in cui ciò risulti compatibile con il decorso della pandemia. Nessun azzardo, pertanto, ma bando a quegli eccessi di prudenza che si sono verificati in passato: spesso figli di un tirare a campare, per evitare di le responsabilità di una gestione più innovativa.
La risposta del presidente del Consiglio si è avuta nel corso della sua conferenza stampa, sollecitata dalla domanda di un giornalista presente in sala. Quindi risposta obbligata. L’episodio va precisato perché nel resoconto di molti giornali sembra, invece, che Draghi abbia voluto rispondere, per così dire, a prescindere dalla specifica richiesta, secondo gli schemi comunicativi che, in passato, hanno sempre caratterizzato le polemiche politiche. Quando ad una dichiarazione di stampa si rispondeva quasi in tempo reale.
“Le chiusure – ha sottolineato il presidente del Consiglio – sono pensabili o impensabili solo in base ai dati che vediamo” sui contagi. “Le misure hanno dimostrato nel corso di un anno e mezzo di non essere campate per arie. È desiderabile riaprire, la decisione se farlo o meno dipende dai dati”. E allora qual è il dato vero del contendere? Forse Salvini dice: “vengo anch’io” e Draghi gli risponde “no, tu no”? Sembra che, almeno sul metodo, le distanze tra i due non siano poi così significative. Semmai, il conflitto si manifesterà sulla valutazione dei dati futuri. Se quella leggera brezza di ottimismo, che si intravede nelle ultime tendenze, sarà o meno confermata.
Archiviata rapidamente questa piccola tempesta in un bicchier d’acqua, alimentata soprattutto per consentire ai media di poter fare il loro gioco, è bene ritornare con i piedi per terra. È infatti evidente che le sensibilità del presidente del Consiglio e quella del segretario del principale partito italiano non debbano necessariamente coincidere. Anche se in Draghi le preoccupazioni per il possibile andamento dei conti pubblici non sono secondarie. Vero è che, come egli continua a dire, che questo è il momento di dare. Ma dare, ossia intervenire con sovvenzioni pubbliche, non può significare buttare il danaro dalla finestra.
Perché, a ben vedere, questa – quella del “dare” – è l’unica possibilità che resta per far fronte al prolungamento della chiusura delle varie attività economiche. E, infatti, una parte dello stesso centrodestra, si preoccupa più di sollecitare nuovi scostamenti di bilancio, piuttosto che interrogarsi fino a che punto l’Italia possa spingersi nel generare un deficit destinato a trasformarsi, in una percentuale ben maggiore, in debito pubblico, a causa della simultanea caduta del Pil.
Da questo punto di vista, lo scetticismo di Salvini riflette la richiesta ben più pressante del suo blocco sociale di riferimento. All’elemosina di Stato, commercianti, professionisti, esercenti di varie arti e mestieri, preferiscono tornare al lavoro. Elemento di emancipazione, pur nell’alienazione, come lo hanno sempre considerato i classici. Nobili sentimenti, quelli manifestati, che non disdegnano tuttavia i conti del dare e dell’avere, avendo dovuto constatare sulla propria pelle, visto che siamo in tema di reminiscenze dantesche, quanto duro sia stato “lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Vale a dire dipendere da una benevolenza pubblica, difficilmente in grado nel fornire il necessario supporto.
Purtroppo sono gli stessi dati dell’Istat a parlar chiaro, almeno per quanto riguarda l’anno appena trascorso. Nel 2019 il deficit pubblico è aumentato di 119 miliardi. Ma se da questo importo si sottrae gli aumenti nelle spese per il welfare (pensioni, CIG, assistenza e via dicendo), pari a circa 50 miliardi, e le minori entrate derivanti dal crollo delle imposte, dovute sul minor valore aggiunto, (24,4 miliardi) non restano che 49 miliardi: neppure tutti spesi per i necessari “ristori”. Secondo la definizione dei vari Dpcm.
Sull’altro piatto della bilancia, una caduta del valore aggiunto pari a quasi 140 miliardi, dovuto alla crisi dell’industria per 27 miliardi; ma soprattutto a quella dei servizi per ben 87 miliardi, che equivalgono al 7 per cento del valore aggiunto dell’anno precedente. Ma che in alcuni comparti, come quello del commercio, delle professioni o delle attività ricreative è pari al doppio.
Ed ecco allora spiegate le diverse sensibilità, tra il Capo del governo e il principale rappresentante politico di quel blocco sociale. Una dialettica del tutto comprensibile, stando, come si è vista, la comune preoccupazione per i dati della pandemia. Ma una dialettica che non è bene esasperare.