Il tentato Golpe in Giordania ci racconta una regione ancora inquieta, dove gli Stati Uniti cercano di rimodulare la loro presenza, pur mostrandosi attivi nei dossier che contano
Insieme all’Arabia Saudita e all’Egitto, il primo Paese a mostrare sostegno a re Abdallah di Giordania per il micro-tentativo di colpo di stato di sabato 3 aprile sono stati gli Usa. La vicenda dimostra che la regione vive ancora delle inquietudini, anche in alcuni degli Stati dove la stabilità è apparentemente consolidata. Inoltre dimostra che gli Stati Uniti sono attori attenti, pronti a prendere posizione con i propri partner (o alleati: la Giordania è una pedina fondamentale per il counter-terrorism), nonostante Washington stia cercando le vie per un disingaggio regionale — spostando risorse in altre aree del mondo considerate più importanti strategicamente (vedi la Cina e l’Indo Pacifico).
Quanto successo ad Amman è una crisi all’interno del regno che sembra essere andata fuori controllo, e delle sue unicità. L’economia giordana, già in difficoltà prima dell’avvento di Covid, non è in buone condizioni e cresce l’insoddisfazione dell’opinione pubblica. In un videomessaggio che ricorda quello della principessa Latifa imprigionata a Dubai (per restare sulle inquietudini regionali), il figlio del defunto re Hussein ha accusato il suo governo di corruzione, nepotismo e incompetenza. Dice che tutto il suo staff è stato arrestato, lui e la sua famiglia sono agli arresti domiciliari nel palazzo al-Salaam fuori Amman. Nel video, passato alla BBC da uno dei suoi avvocati, descrive un Paese in preda alla paura, dove chi critica il governo rischia l’arresto da parte della polizia segreta.
Il tema dei diritti e delle libertà, seppure in un contesto dove la democraticità non esiste, è un punto su cui l’amministrazione Biden batte nei confronti di quegli alleati regionali. Si veda per esempio le relazionano con Riad, dove nell’ambito della rimodulazione dei rapporti (e dei coinvolgimenti), Washington ha reso pubblico il rapporto delle intelligence con cui si incolpa l’erede al trono Mohammed bin Salman del caso Khashoggi.
Recentemente sono uscite notizie su come questa rimodulazione riguardi anche il campo militare. Tre batterie Patriot sono in fase di ritiro dal suolo saudita, con loro dei sistemi di sorveglianza e 15th Meu (unità di spedizione dei Marines che muoverà verso l’Indo Pacifico). Secondo il Wall Street Journal ci sarà comunque un bilanciamento. Arriveranno nuovi equipaggiamenti in vendita (e le vendite, per ora bloccate come mossa iniziale della nuova amministrazione, ripartiranno dunque). Potrebbero aumentare le attività di addestramento e di cooperazione tra comandi.
La sfera sicurezza è centrale per un Paese come Riad, che soffre orami quasi quotidianamente gli attacchi degli Houthi yemeniti — contro cui combattono da oltre cinque anni e su cui Washington sta spingendo un negoziato anche aiutando Riad a uscire dal pantano. Per altro, le notizie arrivano quasi contemporaneamente al riavvio, in forma indiretta, dei negoziati con l’Iran. La regione è complessa, vive le sue inquietudini, gli americani hanno priorità diverse e si muovono sulla base di queste. Conseguenza, i rivali — Russia e Cina — cercano spazi per creare influenza, per lanciare i propri business, per incalzare gli Usa.