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L’algoritmo è nelle nostre vite, impariamo a domarlo. I commenti di Stagnaro e Nicodemo

Siamo vittime inermi dei social network? Abbiamo chiesto a Carlo Stagnaro (Istituto Bruno Leoni) e Francesco Nicodemo (Lievito consulting) un commento all’articolo di Nick Clegg su Facebook che promette più trasparenza e controllo sui contenuti. Perché le polemiche politiche ed economiche passano, l’algoritmo no

L’ALGORITMO NON È UNA MODA PASSEGGERA

Il rapporto tra gli utenti di Facebook e l’algoritmo che sceglie i contenuti visualizzati è stato al centro del dibattito sin da quando nel 2006 il social network ha iniziato a diffondersi nei campus universitari e nelle aziende, fino a raggiungere gli attuali 2,7 miliardi di utenti mensili. L’azienda ha più volte aggiustato il tiro, aumentando il controllo su video, foto e articoli che non rispettavano le sue regole e dando a ciascuno la possibilità di scegliere cosa ha la priorità e cosa non si vuole affatto vedere.

Eppure solo pochi mesi fa è uscito su Netflix il documentario The Social Dilemma, in cui gli autori immaginano una “stanza dei bottoni” digitale in cui ingegneri informatici premono pulsanti e muovono dei comandi per manipolare un adolescente attraverso il suo smartphone. E stiamo parlando di una piattaforma di streaming che usa gli algoritmi per orientare le scelte di regia e di sceneggiatura. Ci percepiamo, nel nostro rapporto con la tecnologia, come vittime impotenti di strumenti distopici e inarrestabili che hanno in mano le nostre vite, e che lo faranno in modo sempre più invasivo.

BISOGNA ESSERE IN DUE PER BALLARE IL TANGO

È davvero così? Per Nick Clegg, a capo degli Affari Globali di Facebook, questo scenario spaventoso non corrisponde alla realtà. Vorrebbe dire che noi esseri umani siamo incapaci di separare le informazioni utili da quelle dannose, fingiamo di non sapere che certi contenuti sgradevoli sono creati da nostri simili e non dalle macchine, e soprattutto chiudiamo gli occhi davanti a un fatto compiuto: con l’algoritmo dobbiamo imparare a convivere, perché continuerà a essere il “filtro spam” delle nostre vite. Anche se abbandonassimo tutti i social network, l’algoritmo entrerebbe in gioco in qualunque attività online. Quando facciamo una ricerca, compriamo qualcosa, vediamo una serie tv, leggiamo una notizia, scegliamo dove andare in vacanza, ordiniamo una pizza.

Facebook, annuncia Clegg, si impegna a rendere il processo più trasparente e ancora più aperto al controllo di chi lo usa, ma noi dobbiamo impegnarci a essere parte attiva (e non vittimista) di questa rivoluzione antropologica.

Formiche.net ha chiesto a persone esperte della materia cosa pensassero del lungo articolo di Clegg. Dopo aver intervistato Antonio Nicita, professore universitario ed ex commissario AgCom, ci siamo rivolti a Carlo Stagnaro, economista e direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni, e a Francesco Nicodemo, digital strategist e fondatore di Lievito consulting.

STAGNARO: LA CACCIA ALLE STREGHE DIGITALI NON SERVE A NIENTE

Per Stagnaro, “ci sono due aspetti su cui riflettere. Il primo, su cui il post di Clegg è nel complesso convincente, riguarda il nostro rapporto con Facebook o con qualunque altro social media: il tempo che passiamo a leggere i feed o interagire con altri utenti è frutto di una nostra decisione. Nessuno ci costringe. Lo stesso tempo potremmo passarlo in altre attività, online oppure offline. Questa mi sembra una questione troppo spesso ignorata o sottovalutata: in questi mercati digitali, la risorsa per cui le piattaforme competono è proprio il tempo che gli utenti vi dedicano, perché da quel tempo deriva il valore che le stesse piattaforme hanno agli occhi di inserzionisti e finanziatori”.

L’errore, secondo l’economista, è pensare che Facebook competa solo con altri social network più o meno simili. “No, i suoi competitor sono anche Netflix o Formiche, in un rapporto che però è complesso perché contemporaneamente è proprio attraverso Facebook che un utente può scoprire che Formiche esiste, e quindi decidere di metterlo tra i preferiti e leggerlo tutti i giorni. L’economia digitale è una rete complessa di relazioni cooperative e competitive che sarebbe ingenuo ridurre a statement politici tipo ‘buono’ o ‘cattivo’”.

C’è però una seconda considerazione da fare, più specifica rispetto a Facebook: “Nonostante tutti i caveat, non c’è dubbio che Facebook abbia una posizione dominante della quale potrebbe abusare. Ma questo è un problema classico di antitrust: tant’è che la stessa Facebook ha subito nel mondo diverse condanne per condotte abusive. Ma questo è radicalmente diverso dal pensare che vadano introdotte nuove fattispecie di condotte illecite o nuovi strumenti per condannarle. Troppo spesso si ha la sensazione, almeno in Europa, che si sia già deciso che Facebook & Co sono colpevoli, e che si sia alla forsennata ricerca di nuove tipologie di reati sulla base dei quali potrebbero essere condannati. Ma così facendo si perde di vista quello che, invece, dovrebbe essere il punto di partenza: un reato presuppone una vittima e un danno. Chi è stato danneggiato e come da Facebook? O si dimostra questo – e lo si può probabilmente dimostrare in molti casi, senza inventarsi nuove fattispecie – oppure siamo di fronte a una guerra puramente ideologica che si ammanta da difesa dei consumatori e della concorrenza, ma non è altro che una nuova forma della vecchia politica industriale”, conclude Stagnaro.

NICODEMO: L’ALIBI POLITICO È CADUTO

Nicodemo, che da molti anni si occupa di comunicazione politica, soprattutto digitale, smonta quello che lui chiama “il grande alibi delle élite occidentali”: “Per giustificare la loro incapacità di comprendere cosa stava accadendo nelle democrazie liberali, hanno attribuito la colpa del risultato alle presidenziali 2016 (ovvero la vittoria di Trump) ai social network che avrebbero ‘influenzato’ le elezioni”.

Ora lo scenario è cambiato: “La grande minaccia cosiddetta populista sembra essere in risacca, e allora possiamo affrontare sine ira et studio il rapporto degli Stati con le mega corporation digitali mondiali. Ad esempio, continuiamo a considerare un ecosistema di dibattito pubblico quello che è un giardino privato, per quanto ampio e sconfinato, dove le regole e i funzionamenti di apertura non dipendono da un’entità istituzionale ma da una società per azioni. E in questo ecosistema ci sono le nostre vite, le nostre relazioni, le nostre idee e le nostre emozioni. Facebook, come altri, deve accettare questa sfida. Occuparsi meno della sua reputazione e di più dell’impatto di questa straordinaria piattaforma nella vita delle persone”.



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