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La Cina piega il fintech ai suoi voleri. E in borsa brindano

Dopo la mazzata da 2,3 miliardi su Alibaba, Pechino mette in riga anche le altre big, ora favorevoli ad accettare le nuove regole su prezzi e trasparenza. In realtà multe e diktat non spaventano chi investe nel fintech, come dimostra il titolo del colosso fondato da Jack Ma, schizzato in Borsa: la stabilità (e i rischi politici disinnescati) attirano investitori

La Cina vince la sua battaglia contro il fintech domestico e scrive una nuova pagina dell’industria tecnologia. Tutto è iniziato con l’attacco frontale, lo scorso anno, ad Alibaba, gigante globale dell’e-commerce e dei pagamenti e simbolo della potenza tecnologica cinese. Prima lo sgambetto all’Ipo del secolo di Ant (37 miliardi), braccio fintech di Alibaba, poi l’indagine dell’Antitrust che me ha disintegrato il monopolio (commercio elettronico e pagamenti) ultra-decennale. Infine, dopo aver accarezzato la nazionalizzazione, la trasformazione coatta in holding.

Lo scontro tra il Dragone e il colosso fondato da Jack Ma si è risolto con una multa da 18,23 miliardi yuan (pari a 2,33 miliardi di euro) per le violazioni delle regole antitrust. E questo ha aperto una voragine nel fintech cinese, spianando la strada a un riassetto forzoso dell’intero comparto. I risultati non hanno tardato ad arrivare. Proprio in queste ore alcuni dei grandi gruppi – tra i quali JD.com, Meituan e ByteDance – hanno deciso di impegnarsi nell’adeguarsi alle nuove norme, più stringenti, imposte da Pechino.

In tutto, sono 34 i big tech che dovranno piegarsi ai desiderata di Pechino, ma il fatto che numerose aziende abbiano già accettato è sicuramente il segno di un cedimento del fronte fintech su larga scala. Ieri le autorità di controllo del mercato tech cinesi hanno convocato i principali gruppi del Paese, che messi insieme totalizzano un valore aggregato superiore al Pil della Gran Bretagna, per invitarli a “imparare la lezione” dalla multa miliardaria comminata ad Alibaba per abuso della posizione dominante nell’ambito del commercio elettronico.

Come a dire, dopo essersi abbattuta sul gruppo di Jack Ma, la clava di Pechino potrebbe tranquillamente colpire anche le altre. Una minaccia che a quanto pare deve aver avuto i suoi effetti. Un esempio su tutti, JD.com, che nella sua risposta a Pechino ha fatto otto promesse che includono anche quella di “non abusare della posizione dominante di mercato o di stringere accordi di monopolio”, oltre che quella di “non pubblicare mai pubblicità illegale o vendere prodotti di qualità al di sotto degli standard”. Un’altra big, Meituan, ha promesso di non imporre misure irragionevoli e di abusare della posizione dominante, oltre che di essere pronta a denunciare ai regolatori ogni comportamento illegale.

Ancora, ByteDance (che controlla le app di short video TokTok e Douyin) ha fatto 13 promesse, tra cui quella di “non raccogliere dati illegalmente e non farne un cattivo uso”, seguendo il “principio del minimo necessario” nella raccolta di informazioni, ha scritto il South China Morning Post. Ieri, in seguito alla convocazione dei giganti tech, i titoli di questi gruppi hanno avuto perdite consistenti in borsa, ma oggi c’è stato un rimbalzo. Adesso mancano ancora una manciata di sì, visto che le riposte affermative alle richieste di Pechino sono non meno di 12 al momento.

Ma non tutto il male viene per nuocere. Perché se da una parte il fintech è dovuto scendere a patti con il Dragone, la multa ad Alibaba e quelle gravanti sulle altre big qualora fossero inadempienti potrebbero rivelarsi paradossalmente vantaggiose se il metro di misura è la Borsa. La prova è la stessa Alibaba: il gigante dell’e-commerce ha minimizzato sui listini la sanzione Antitrust, con il titolo volato in Borsa ad Hong Kong del 9% (237,60 dollari).

A rassicurare gli investitori sono state le parole del ceo Daniel Zhang: la multa “non avrà un impatto negativo” sul business del gruppo. Uno schema già visto con il precedente più illustre, la multa da 5 miliardi comminata a Facebook nel 2019 dalle autorità americane per violazione della privacy. Anche in quell’occasione, non ci fu uno shock sul titolo, anzi. Gli investitori non si sono minimamente preoccupati, continuando a comprare azioni Facebook. E chissà che ora il canovaccio non si ripeta per le big del fintech cinesi, essendo di fatto disinnescato il rischio di nuovi scontri politici.

Un’euforia che dai listini si è propagata fin dentro l’azienda. Il gruppo ha promesso di abbassare i costi operativi per i commercianti sulle sue piattaforme. “Abbiamo una comunicazione continua con i regolatori”, ha proseguito Zhang, aggiungendo che la società “rispetterà pienamente” i requisiti. “Abbiamo avuto una buona guida da parte dei regolatori su alcune delle questioni specifiche della legge anti-monopolio e direi che siamo lieti di essere in grado di lasciarci questa questione alle spalle”. Insomma, Pechino ha vinto. Ma forse anche il fintech ha guadagnato qualcosa.


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