I due hanno un rapporto consolidato, anche di fiducia personale, che va indietro nel tempo e sono stati cruciali in prima persona nel contenere militarmente gli scontri in Ucraina dal degenerare in una guerra frontale tra Stati Uniti e Russia. La telefonata Biden-Putin e l’ipotesi di un summit probabilmente nascono dal loro “fortuito” incontro in India. L’analisi di Igor Pellicciari, Università di Urbino, Luiss G. Carli
Se un’analisi sia chiave di lettura piuttosto che teorema è dubbio ricorrente. In entrambi i casi l’obiettivo è lodevole: semplificare realtà complesse per comprenderle meglio.
La differenza sta nelle conclusioni: il teorema non accetta obiezioni; la chiave di lettura se ne nutre. Il problema è quando dalle ipotesi dell’una si scivola nel dogmatismo dell’altro, senza accorgersene.
Sono i fatti a portare a considerazioni oggettive oppure queste li precedono e scelgono solo quelli utili a suffragare le proprie tesi?
Un simile dilemma affligge i (pochi rimasti) fautori di un dialogo russo-americano nel sistema internazionale. Lo scontro Washington-Mosca è chiave di lettura per comprendere l’attuale dis-ordine mondiale oppure è teorema di chi ha buoni rapporti con entrambi e si districa con difficoltà tra i due?
Per chi si trova nel mezzo come l’Unione Europea, alla costante ricerca tra mille difficoltà di una sua politica estera e di sicurezza, in polemica con Mosca ma in competizione con la Nato, la questione non è teorica ma vitale.
Qualunque sia l’interesse dei promotori di un riavvicinamento (si badi, non alleanza) tra Usa e Russia, è corredato da alcune razionali considerazioni, utili da richiamare ora che la tensione nel Mar Nero sembra toccare punti di non ritorno.
La prima è che ogni qual volta in passato Washington e Mosca si sono coordinate, pur restando in aspra competizione, il mondo ha vissuto una complessiva stabilità con crisi dirottate su scenari circoscritti e i due contendenti ad operare, anche nello scontro, per interposti attori.
Non si tratta di rimpiangere qui il bipolarismo estremo e la (vera) Guerra Fredda che l’ha contraddistinta ma almeno allora le aree di influenza reciproca erano ben definite e il livello multilaterale fungeva da valvola di sfogo diplomatico e luogo di reale mediazione.
Non era un Mondo ideale, ma aveva raggiunto un equilibrio ed evitato una catastrofe nucleare all’epoca più temuta politicamente di oggi, benché il suo attuale potenziale distruttivo sia molto superiore.
Dialogare per ripiegare su un nuovo ordine-mondiale è scelta non buonista ma razionale per suddividere, senza più le zone esclusive del periodo bipolare, aree macro-regionali d’interesse e terminare l’attuale stato di “geo-politica globale-competitiva” che comporta l’obbligo di presenza dappertutto, con un dispendio di risorse non più sostenibile né per Washington né per Mosca. Ma solo per Pechino.
La seconda considerazione è che una tensione politica e retorica russo-americana è fisiologica, serve sia a Washington che a Mosca, ma ha convissuto a lungo con un coordinamento tra le due superpotenze sulle questioni basiche, addirittura con momenti di collaborazione (come nel campo della tecnologia spaziale).
Per uno Stato-nazione dominante in periodo di pace a volte è più importante avere un nemico stabile e prevedibile che un pari amico. Il rivale istituzionalizzato permette di definire in forma speculare opposta le proprie strategie, compattare gli alleati, migliorare le capacità in funzione di situazioni di competizione e allerta, pur sapendo in cuor proprio che il redde rationem è improbabile.
L’arrivo dell’amministrazione di Joe Biden, dopo i strange days trumpiani, era sembrato riportare il terreno del confronto sul vecchio terreno dello scontro politico duro, anche durissimo nelle parole, ma rassicurante dal punto di vista dei canali di negoziazione dietro le quinte.
Sembrava un indubbio vantaggio che l’interlocutore principale dei diplomatici Russi – da alcuni anni alla guida dei centri istituzionali del paese, non solo in politica estera – tornasse ad essere lo State Department, spesso marginalizzato da Donald Trump.
Forse non tutto è ancora perso se si vuole dare importanza alla notizia, per la verità poco pubblicizzata nell’ Occidente distratto dal Mar Nero, che in India vi è stato di recente un incontro informale tra Sergej Lavrov e John Kerry, di fatto ultimo Segretario di Stato americano democratico, prima del recente Antony Blinken.
I due hanno un rapporto consolidato, anche di fiducia personale, che va indietro nel tempo e sono stati cruciali in prima persona nel contenere militarmente a suo tempo gli scontri in Ucraina dal degenerare in una guerra frontale tra Stati Uniti e Russia.
L’attuale peso di Kerry nell’amministrazione Biden è tutto da verificare ma simili episodi di Track II Diplomacy come il bilaterale con Lavrov non accadono mai per caso a questi livelli ed è ipotizzabile che l’incontro sia stato se non organizzato almeno concordato con la Casa Bianca.
Di sicuro, ha facilitato la recentissima telefonata di Joe Biden a Vladimir Putin per proporre un summit dei due presidenti nell’immediato futuro, unico reale segno di distensione di questi giorni.
Va ricordato per inciso che oggi, rispetto al 2013, in Ucraina non tutto dipende dalle decisioni di Washington e Mosca ma anche dalle mosse di altre diplomazie tornate attive sulla scena come quella di Londra, che dall’autonomia post-Brexit non ha guadagnato solo nell’approvvigionamento dei vaccini ma pure nel ritrovato dinamismo del suo potente Foreign Office.
La considerazione finale riguarda i rischi di una eventuale decisione Usa, trovandosi in opposizione a Russia e Cina, di prendersela con il contendente più debole dei due, date le scarse dimensioni della sua economia e una situazione interna politica al momento piuttosto delicata.
È scelta comprensibile da un punto di vista tattico per Washington, che nel reagire oggi nel Mar Nero manda un messaggio a Pechino di essere pronta a difendere domani Taiwan (da tempo nel mirino cinese e next-target dopo Hong Kong). La risposta di Mosca tuttavia potrebbe riservare sorprese se decidesse di seguire quell’attitudine tutta russa di reazione spropositata nei momenti critici.
Pur di non darla vinta al fronte occidentale, il Cremlino potrebbe rinsaldare ulteriormente il legame con la Cina, cedendo altri pezzi di quella tecnologica militare e spaziale (di cui la scoperta del vaccino Sputnik V è l’ultimo esempio), colonna portante del suo resistere nel ruolo di superpotenza.
Già in occasione della crisi del Maidan, la Russia isolata ad Ovest aveva sorpreso molti analisti, in particolare americani, per la facilità con cui si era concessa alla Cina, dopo decenni di rapporti difficilissimi, offrendole un accordo a condizioni favorevoli, impensabili nel passato.
Si rischierebbe una nuova reazione del tipo “bruciare Stalingrado”, di cui Mosca ha dimostrato di essere capace quando ha le spalle al muro.
Comprometterebbe a lungo i rapporti futuri con il nemico rassicurante, mettendo in una posizione impossibile in particolare la Ue e quei Paesi (come l’Italia) che sono atlantisti ma dipendono energeticamente dalla Russia.
Se ne avvantaggerebbe in primo luogo Pechino, che è esattamente il contrario degli obiettivi americani. E non è un teorema.