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Vent’anni dopo, cosa resta dell’Afghanistan? Scrive l’Amb. Stefanini

A vent’anni dall’11 settembre, per gli Usa il terrorismo rimane un’incognita, mentre la rivalità tra grandi potenze è una realtà. Vent’anni hanno cambiato anche l’Afghanistan, ora solo nell’affrontare il futuro; i talebani si attendono di trovare strada spianata per Kabul, ma potrebbero avere sorprese. L’analisi di Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consigliere diplomatico del presidente della Repubblica e rappresentante permanente dell’Italia alla Nato

Non è il momento di discettare sugli scenari geopolitici post-ritiro dall’Afghanistan. Verrà quel tempo. Intanto, a caldo, dopo l’annuncio fatto dal presidente Joe Biden, prontamente confermato da tutti i ministri Esteri e Difesa della Nato, è il momento di ricordare cosa ha rappresentato questo lunghissimo impegno militare e civile alleato e di capire i motivi della decisione americana. Da Alessandro Magno in poi, l’Afghanistan ha fama di essere il “cimitero degli imperi”. Che lo diventi anche per gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica? Chi scrive ne dubita, ma preferisce lasciare ai posteri l’ardua sentenza.

Chi scrive preferisce onorare i caduti delle missioni militari Nato nell’Hindu Kush (54 italiani) e i sacrifici disinteressati di alleati e partner nel sostegno alla popolazione e alla società civile. Che avevano nulla d’imperiale e molto di solidale (c’è molta differenza). L’Italia può andar fiera dell’operato in Afghanistan di soldati, medici, cooperanti, diplomatici. La missione era di portare la pace, ma non era una missione “di pace”. Più della metà dei nostri caduti sono stati vittime di azioni ostili. Sono caduti in combattimento. In Afghanistan, gli italiani hanno combattuto, e bene, per una causa giusta e hanno fatto onore al loro Paese.

Sono anche stati in mezzo alla gente. Chi scrive ricorda l’architetta triestina nel mezzo di Alpini bardati per il servizio di pattuglia; i burka azzurri che facevano la fila all’ambulatorio del Prt (Provincial Reconstruction Team) a Herat nel grigio mattino di dicembre; l’ospedale e la “prigione” femminile da noi costruiti. Nell’uno, un medico milanese borbottava “quello è un talebano (in effetti aveva le physique du role, nda) ma lo curiamo lo stesso”. La seconda più asilo-nido che penitenziario: il reato più comune era la gravidanza extra-nuziale, “extra” ad insindacabile giudizio del coniuge, senza complicarsi la vita col Dna. La figliolanza accompagnava le colpevoli madri.

L’annuncio del ritiro avrà lasciato l’amaro in bocca a chiunque sia stato partecipe di questo impegno italiano – tuttora in corso al massimo livello, col rappresentante civile della Nato a Kabul, Stefano Pontecorvo. Ma le parole di Joe Biden vanno ascoltate attentamente: se non è il momento di andarsene adesso, quando? Tra mesi, tra un anno, due, cinque? Ritirarsi lasciando una nazione che può riprecipitare nelle braccia di un regime disumano o, più probabilmente, nel caos di guerre fra diversi potentati, è una scelta sofferta. Ma non c’è mai un buon momento. Una volta la decisione presa, continuare a rinviare è una scelta peggiore.

Il dado era stato tratto da Donald Trump. Biden non ha fatto altro che meglio strutturare meglio il ritiro, con un minimo di consultazione con gli alleati (Italia in primis, in questo caso grazie alla presenza di Luigi Di Maio a Washington), e scadenzandolo per consentire un’uscita ordinata di tutte le truppe alleate. Il rientro militare sarà accompagnato da un’azione diplomatica che coinvolge il governo di Kabul, i talebani e tutte le potenze regionali interessate a un Afghanistan post-Nato stabile, o non troppo instabile. Sarà una difficile corsa ad ostacoli, ma la miglior strategia d’uscita possibile.

Il ritiro dall’Afghanistan ha innanzitutto una molla interna. In America è venuto meno il consenso indispensabile per un impegno militare a tempo indeterminato. Da questo punto di vista, qualsiasi presidente non avrebbe molta scelta. Da parte di Biden c’è, però, anche una lucida valutazione di politica estera e di sicurezza: la sfida che oggi affronta l’America è tornata ad essere quella tradizionale delle grandi potenze rivali – Cina e Russia – mentre il terrorismo internazionale scivola in secondo piano. Questa, del resto, è anche la conclusione del recentissimo rapporto dell’intelligence americana, secondo cui la minaccia sta più negli attacchi cyber di attori statali che non negli attentati di Al Qaeda o Isis.

Vent’anni dopo, i ruoli di amici e nemici nel mondo sono cambiati, talvolta invertiti, come quelli dei Tre (o quattro) Moschettieri di Alexandre Dumas. È cambiata l’America, passata da Bush a Obama, da Trump a Biden. Il terrorismo internazionale rimane un’incognita; la rivalità fra grandi potenze è però una realtà. Ma vent’anni hanno cambiato anche l’Afghanistan, pur adesso solo nell’affrontare il futuro. I talebani si attendono di trovare spianata la via per Kabul. Potrebbero avere sorprese.


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