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Cambiamento e continuità. Le grandi sfide dell’Afghanistan secondo l’Amb. Talò

Intervista all’ambasciatore Francesco Maria Talò, rappresentante permanente d’Italia alla Nato, sul ritiro del contingente dell’Alleanza dall’Afghanistan, che dovrebbe concludersi entro il prossimo 11 settembre, annunciato lo scorso mercoledì durante gli incontri tra i vertici Usa e Alleati a Bruxelles

“L’Afghanistan è sempre stata una grande sfida; la Nato non è ingenua ed è consapevole dei rischi e delle grandi complessità che ci troveremo ad affrontare. Quanto avverrà rappresenta sicuramente un cambiamento, ma nella continuità: non abbandoneremo l’Afghanistan”. Parola dell’ambasciatore Francesco Maria Talò, rappresentante permanente d’Italia all’Alleanza Atlantica, che Formiche.net ha raggiunto per commentare il recente annuncio sul ritiro di tutte le forze Nato (compresi i circa 800 italiani) entro l’11 settembre, ventesimo anniversario dagli attacchi del 2001.

Dopo quasi vent’anni di presenza in Afghanistan, il piano di ritiro è ora ufficiale: quale consuntivo come Italia e come Alleanza?

Non sono stati venti anni persi. Abbiamo fatto molto per la nostra sicurezza e per il popolo afghano e possiamo esserne orgogliosi. Le missioni portate avanti in Afghanistan in questi anni dagli alleati della Nato, insieme a vari altri partner (nel complesso 36 Paesi hanno militari sul terreno), hanno avuto nature diverse e diversi formati, ma hanno rappresentato l’operazione più importante mai svolta dall’Alleanza. Per la Nato è stata un’esperienza straordinaria, che ha rappresentato un punto di svolta importantissimo anche per l’Afghanistan.

Ci spieghi meglio.

Lasciamo un Afghanistan diverso. Non dobbiamo dimenticare cosa era diventato quel Paese venti anni fa: oltre alla povertà estrema, l’oppressione sistematica dei diritti umani che noi consideriamo universali, specie quelli delle donne, il Paese era poi diventato il rifugio di quello che allora era il gruppo terroristico più pericoloso, al Qaida. L’11 settembre è stato una svolta per tutti, per questo siamo andati in Afghanistan, non dobbiamo dimenticarlo. Da allora non sono più partiti attacchi contro le nostre città provenienti dall’Afghanistan. Al Qaida è stato decimato, il suo capo, Osama Bin Laden, si è dovuto spostare in Pakistan e lì è stato scovato dagli americani.

Certo, il Paese ancora è in una situazione di estrema povertà, di estrema insicurezza e c’è ancora tanto da fare, ma si è fatto comunque molto: vent’anni vuol dire quasi una generazione, in un Paese così giovane, che è cresciuta avendo opportunità che prima venivano negate, a partire dalla possibilità di educarsi o di avere almeno un minimo di dibattito politico con una società civile che si è sviluppata. Esistono forme di diritti civili, che per noi sono del tutto naturali e scontate, ma che non esistevano per nulla.

Allo stesso tempo, c’è stata anche un’importante crescita delle nostre Forze armate, che hanno lavorato insieme a quelle di altri Paesi in maniera sempre più integrata ed efficace. Tutta l’Alleanza è cresciuta in Afghanistan.

Torniamo ai diritti umani: lei è stato recentemente in Afghanistan, cosa ha trovato?

Vorrei ricordare l’incontro che ho avuto, nel corso della mia ultima visita di pochi giorni fa in Afghanistan, con alcune vice ministre donne in seno al governo afghano, Hosna Jalil, Zakia Adeli, Mujgan Mostafavi, Alema Alama e Atifa Tayeeb, un gruppo di donne che, sebbene non siano (per loro stessa ammissione) rappresentative della condizione femminile della società afghana, rappresentano comunque un fattore cruciale nel percorso sui diritti civili, e la cui presenza in seno all’amministrazione dello Stato è già di per sé un elemento molto importante. Ecco, queste donne esistono. Si riallaccia un filo con un Afghanistan che esisteva prima dei decenni di conflitti. La nostra presenza ha generato una speranza di crescita civile e sarebbe ingiusto, soprattutto nei confronti degli afghani, pensare che la normalità di quel Paese debba essere l’oppressione dei suoi cittadini. Tutto questo è importante che rimanga per il futuro, che il Paese continui a essere libero dalla minaccia terroristica e che si preservino le conquiste raggiunte finora.

Durante la sua visita ha incontrato membri del governo centrale e periferico dello Stato, oltre alle autorità civili e militari dell’Alleanza presenti nel Paese. Com’è la situazione sul campo?

L’Afghanistan ha bisogno di assistenza, questo è innegabile, ma ha anche fatto progressi importanti. Un altro grande risultato è quella di avere creato un sistema di sicurezza che prima era praticamente inesistente. Le truppe afghane oggi sono più professionali, meglio equipaggiate, meglio comandate e più sostenibili di prima. Questo è merito della capacità di sostegno, formazione ed addestramento che è stata data dalla missione Resolute Support della Nato. Questi sono fatti che ho potuto constatare anche nella mia ultima missione lì. A proposito di fatti, vorrei ricordare che quando andavo in Afghanistan circa dieci anni fa, mentre ero Inviato speciale per quel Paese, i militari della missione Nato allora sul terreno erano oltre 100mila, adesso Resolute Support ne schiera circa un decimo. Questo dato è eloquente della capacità raggiunta dalle forze di sicurezza afgane grazie al nostro impegno. Essere riusciti a rimanere con una presenza inferiore vuol dire che è cresciuta la capacità degli afghani di assicurare la propria stessa sicurezza.

La mia visita è stata certamente molto tempestiva, è avvenuta pochissimi giorni prima delle decisioni di mercoledì scorso annunciate a Washington e Bruxelles ed ha confermato ancora una volta, grazie a numerosi incontri con i vertici afghani a Kabul e Herat, che l’Italia c’è, a livello politico-diplomatico come in ambito militare. Posso dire che ho potuto riscontrare l’immenso livello di gratitudine che c’è nel Paese per quello che abbiamo fatto. Sebbene io sia stato lì prima della decisione di ritirare le truppe, ovviamente già si prospettava il termine della presenza internazionale. Non c’è presenza che debba essere infinita e, lo ripeto, l’obiettivo per cui si è andati in Afghanistan, evitare che il Paese dovesse essere un santuario per i terroristi che vogliono colpire le nostre città, è stato sostanzialmente raggiunto. Del resto, la precedente amministrazione americana aveva già espresso la volontà di ritirare le truppe, indicando la data del primo maggio quale data finale, data che è diventata adesso il punto di partenza di questa nuova fase. Gli afgani, tuttavia, sono soprattutto interessati al fatto che noi continueremo ad assisterli, anche se in modo diverso.

Come detto anche dai rappresentati Usa e Nato insieme all’annuncio del ritiro…

Sì. Ciò che è stato sostenuto nelle riunioni qui alla Nato pochi giorni fa è coerente con quello che io ho sentito a Kabul, soprattutto da tutti i principali esponenti del governo, sono stato a lungo con il vice presidente Amrullah Saleh, con il ministro degli esteri Hanif Atmar, con il responsabile del consiglio per la riconciliazione nazionale Abdullah Abdullah e con l’ex presidente Hamid Karzai. Ho avuto lunghi incontri con tutti loro e anche con il governatore di Herat, Sayed Abdul Wahid Qattali, che amministra una regione dove si è sviluppato, nel corso degli anni, un rapporto particolare con gli italiani. Ecco, loro vogliono l’assicurazione che noi, come Nato e come Occidente, non abbandoniamo l’Afghanistan. Che in modo diverso continueremo a lavorare con gli afghani, ad assisterli, ed è quello che intendiamo fare. È stato detto anche chiaramente in questi giorni dai nostri responsabili, dal ministro degli Esteri Luigi di Maio e dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini: non abbandoneremo l’Afghanistan.

In che modo?

Potremmo essere presenti con i progetti di cooperazione, fondamentali per il popolo afghano, e con un sostegno per mantenere la capacità delle forze di sicurezza afghane. È importante per il popolo afghano ma è importante anche per noi, perché abbiamo sviluppato un legame con questo Paese, estremamente rilevante anche dal punto di vista geostrategico. In tutto questo c’è un processo di pace da sostenere, con i negoziati infra-afghani avviati recentemente pur con grande difficoltà. C’è la prospettiva di una conferenza in Turchia. È importante che questo processo vada avanti e le potenze regionali possono avere un ruolo rilevante nel contribuire ad un Afghanistan pacifico e che cresce in un’area del mondo davvero cruciale. Anche l’Italia ed altri paesi occidentali possono contribuire, ma i protagonisti devono essere gli afghani.

Qual è il risultato che l’Italia porta a casa dall’esperienza in Afghanistan?

Nel corso della mia visita ho potuto constatare una gratitudine straordinaria nei confronti dell’Italia per il contributo generoso dato dal nostro Paese, e in particolare dalle nostre Forze armate, all’Afghanistan e al suo popolo. Tutti gli interlocutori che ho incontrato hanno ribadito la loro gratitudine per l’Italia. Tutti noi italiani, quindi, dobbiamo essere orgogliosi delle nostre Forze armate e grati per i loro sacrifici anche estremi. Ho visto i nostri militari a Herat e Kabul e ho visitato anche la nostra base logistica di Al Minhad negli Emirati Arabi Uniti: efficienza, professionalità e umanità sono un patrimonio straordinario dei nostri militari.

Attraverso la missione in Afghanistan, poi, l’Italia ha acquisito uno straordinario credito internazionale, in particolare grazie al ruolo svolto dalle nostre Forze armate all’interno della missione e della Nato. Basti pensare al fatto che proprio mercoledì, durante la riunione del Consiglio atlantico e con la significativa visita dei due importanti membri dell’amministrazione americana, il segretario di Stato e il segretario della Difesa, erano presenti fisicamente solo pochi ministri, e tra questi c’era il ministro degli esteri italiano Di Maio, insieme ai ministri del Regno Unito, della Turchia e della Germania e basta. Tutti gli altri erano collegati in videoconferenza. Questi cinque Paesi non solo erano presenti, ma hanno anche avuto l’occasione di approfondire con gli americani la visione di questa situazione, del modo in cui era maturata la decisione, e delle prospettive che si aprono in una precedente riunione ristretta. L’Italia ha, dunque, avuto una consultazione privilegiata con gli americani e con gli altri alleati.

Che significato ha questo?

Significa che possiamo dire di essere, nella Nato, un Paese che conta. Tant’è che poi c’è stata una successiva riunione ristretta su altri temi, e anche lì eravamo tra i pochi che hanno avuto la possibilità di approfondire in modo particolare con gli americani alcune tra le principali questioni che sono sul tappeto per la nostra sicurezza, a livello ministeriale ristretto. In tutto questo vorrei sottolineare anche l’atteggiamento americano, che mi pare sintomatico del nuovo approccio dell’amministrazione di Joe Biden, che comprende il valore delle alleanze, di quanta maggiore forza gli Stati Uniti acquistino nella loro guida dell’occidente, grazie all’esistenza di un contesto multilaterale come quello della Nato. Gli americani negli ultimi mesi sono stati attenti a raccogliere anche le nostre valutazioni, a condividere il percorso di rivisitazione della politica riguardante l’Afghanistan, così come su altri temi. C’è un’interlocuzione con Washington continua, diretta. Il gesto di far coincidere l’annuncio del presidente Biden con la riunione di Bruxelles è stato molto significativo dal punto di vista politico, nel senso di riaffermare il valore dell’Alleanza Atlantica. Per la Nato è stato importante aver riaffermato ancora una volta in questi giorni in modo evidente unità, coesione e solidarietà: da quella espressa dopo l’11 quando insieme siamo andati in Afghanistan, agli aggiustamenti della nostra presenza fatti insieme tra alleati, al ritiro deliberato e condotto insieme. Un ritiro da noi voluto che avviene in modo ordinato.

Siamo andati in Afghanistan dopo l’attacco alle Torri gemelle l’11 settembre 2001 (quel giorno, tra l’altro, lei era proprio a New York) e ci ritiriamo lo stesso giorno. Al di là dei simbolismi, cambierà, e come, la lotta al terrorismo dopo l’esperienza dell’Afghanistan?

Sì, io ero a New York, quell’11 settembre, e mi sono sentito personalmente attaccato. Ma si è trattato di un attacco contro tutti noi: era il cuore dell’Occidente che veniva attaccato. In quei giorni, mi ricordo, tutti si diceva “I am a New Yorker”, siamo tutti newyorkesi. Quello spirito di solidarietà è lo spirito fondante della Nato, con il suo articolo 5 che dice sostanzialmente “tutti per uno e uno per tutti”. Per la prima volta è stato applicato l’articolo 5 in solidarietà nei confronti degli Stati Uniti. In origine, quando è nata l’Alleanza Atlantica, si pensava probabilmente che sarebbe accaduto il contrario, con gli americani che avrebbero dovuto accorrere in aiuto dell’Europa in caso di crisi. La loro forza, che ha agito da deterrente, ha permesso che questo non accadesse, e quando si è trattato di accorrere noi in aiuto degli Stati Uniti, non ci siamo tirati indietro. Siamo, dunque, andati insieme in Afghanistan perché da lì era arrivato l’attacco, e si voleva evitare che quel Paese continuasse a essere un santuario per un tipo di terrorismo che individuava nell’Occidente un nemico fondamentale. Da allora non si sono ripetuti attacchi provenienti dall’Afghanistan. Da quel punto di vista, che è il motivo originatore della nostra presenza nel Paese, si è riusciti a ottenere il risultato voluto. Se l’11 settembre 2001 l’attacco mi ha sorpreso nel mio ufficio a New York, l’11 settembre 2011 ho voluto essere con i nostri militari a Herat. Oggi la lotta al terrorismo cambia, il mondo del 2021 non è quello del 2001, bisognava prenderne atto.

In che modo?

Il terrorismo è come un’idra, ogni volta che gli mozziamo una testa ne rinascono altre. Il terrorismo è rinato in altri modi e in altri luoghi. Dopo Al Qaida, che si è sviluppata e si è affermata in Afghanistan a causa di una situazione di crisi e di vuoto in quel Paese, è nato, in Iraq e poi in Siria, l’Isis. Nei confronti dell’Isis si è costituita una coalizione nella quale, ancora una volta, l’Italia ha un ruolo cruciale. Emerge anche una dialettica tra le attività multilaterali, con la Nato che, avendo una sua forte struttura ed esperienza, può contribuire ad attività internazionali per la sicurezza, tant’è che potrà crescere l’assistenza in settori di formazione ed addestramento della Nato in Iraq a seguito delle richieste del governo di Baghdad. La Nato è il posto dove noi occidentali, europei e nordamericani, ci vediamo quotidianamente, letteralmente sotto lo stesso tetto, per trattare delle grandi minacce internazionali, di cui il terrorismo è una delle due sfide principali, insieme a quella russa.

Chiudiamo sul futuro dell’Afghanistan. Biden ha assicurato il sostegno diplomatico e umanitario degli Usa all’Afghanistan, posizione ribadita anche dall’Italia. Come cambierà il rapporto tra “Occidente” e il Paese degli aquiloni?

Cambierà nel senso che si apre un nuovo capitolo, ma non si chiude la storia. È importante evitare assolutamente qualsiasi sentimento di abbandono, anche perché i vuoti vengono riempiti da altri. Dobbiamo farlo in varie forme che adesso spetta a noi studiare, dal punto di vista della sicurezza e dal punto di vista, cruciale, della cooperazione allo sviluppo, che già esiste e deve continuare anche in futuro; quell’aiuto al popolo afghano rispetto al quale l’Italia è stata sempre molto generosa.



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