Il 26 maggio si voterà in Siria, con Bashar el Assad che esce dalle urne con percentuali mai scese sotto all’80 per cento. Il raìs mantiene la presa sul potere, ha vinto la guerra civile (grazie a Russia e Iran), e il suo Paese macchiato dal sangue di migliaia di morti è allo stremo
Come se nulla fosse successo (o stesse ancora succedendo, dopo dieci anni di guerra), in Siria si torna a votare. Il rais Bashar el Assad ha convocato le elezioni presidenziali per il 26 maggio, e si andrà alle urne senza nessuna forma non tanto di accordo, quanto di dialogo, con le opposizioni (né i curdi né i gruppi armati e non arabi). Nemmeno la Comunità internazionale – qui leggasi Onu, Ue, Usa – è parte dell’intesa elettorale, difesa invece da Russia e Iran che da anni si impegnano per puntellare il regime.
Quattrocentosettantamila morti, centomila persone scomparse (probabilmente eliminate dai Mukhabarat assadisti), undici milioni di rifugiati che hanno cambiato il contesto sociale di Paesi come Libano, Giordania, Iraq, creato tensioni in Turchia e Europa. La Siria è tutt’altro che un conflitto risolto, è una questione ancora in piena evoluzione, su cui tante nazioni continuano a muoversi – adesso seguendo l’interesse della ricostruzione (l’economia è in ginocchio, e in un paese in cui sette cittadini su dieci non hanno accesso all’acqua potabile è facile comprendere come serva tutto, e tramite investimenti dall’estero).
Il trend dal 1971 a oggi non lascia sorprese su come finiranno le prossime elezioni. Dal padre Hafez al figlio Bashar, gli Assad comandano il Paese da 50 anni.
La Siria è uno Stato fallito, la percentuale di persone che vivono sotto la soglia di povertà è la più alta del mondo (82,5 per cento), e salvare Assad è stato un gioco geopolitico con cui Paesi come la Russia si sono garantiti un accesso al Mediterraneo, e altri come l’Iran hanno potuto rafforzare la propria influenza regionale (consolidando gli strumenti strategici come le milizie sciite). In questi interessi ha avuto il suo ruolo anche la Turchia, che ha sfruttato il contesto per attaccare i curdi (sia turchi che siriani) avviando sulla Siria la coopetition con Mosca.
L’annuncio delle elezioni arriva a pochi giorni dalla conclusione della Conferenza sul futuro della Siria, guidata dall’Ue (s’è svolta a Bruxelles, è stato il quinto appuntamento del genere) e con la partecipazione di 55 Paesi. L’obiettivo è la stabilizzazione per poi finanziare la ricostruzione. I fondi ci sarebbero anche, ma il punto è che investirli in Siria in questo momento significa inviarli al regime di Damasco. E Stati Uniti e Ue vedono come imprescindibile per la ricostruzione del Paese una transizione del potere.
L’Onu pensa dal 2015 che sia necessaria la costruzione di una nuova costituzione (liberale e democratica) che guidi i siriani verso elezioni libere (libere dagli Assad). Lavoro che le Nazioni Unite si propongono di prendere sotto egida, ma che faticano a portare avanti all’atto pratico. La risoluzione che proponeva quella road map, la 2254/2015, è stata votata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza, ma il voto favorevole di un membro permanente come la Russia è stato un palese bluff, perché Mosca è più interessata a portare avanti i propri interessi che quelli onusiani.