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La Superlega si schianta. Fuori le inglesi, Agnelli cede. Cosa succederà

I motivi economici, politici e sociali che hanno portato al naufragio del progetto delle 12 super-squadre. L’assenza di Francia e Germania, la reazione furiosa di tifosi e federazioni, soprattutto la miopia di non capire che il calcio è un’economia di rete. Cosa succederà dopo l’uscita degli inglesi e dell’Inter? Il titolo Juventus crolla del 10% in apertura e Andrea Agnelli ammette: “Senza le inglesi, la Superlega non esiste più”

Un simile disastro comunicativo e gestionale non si era mai visto, e sarà studiato negli anni a venire. Ieri sera le squadre inglesi, una dopo l’altra, si sono sfilate dalla Super Lega appena annunciata, pur essendo la metà dei club promotori (6 su 12). Le spagnole traballano, mentre all’una di notte viene battuta un’Ansa che parla di un passo indietro interista, mentre il Corriere dello Sport lanciava l’intervista esclusiva ad Andrea Agnelli che rischia di finire come la prima pagina Dewey defeats Truman,

 sventolata da un sorridente e vittorioso Harry Truman dopo le presidenziali americane del 1948.

Come siamo arrivati a questo punto?

Come ha scritto Fulvio Giuliani, la scissione nasce dalla disperazione economica delle squadre coinvolte, tanto blasonate quanto finanziariamente a pezzi. Hanno trovato gli investitori giusti (Jp Morgan e altri fondi che non si sono esposti) che garantissero un’iniezione miliardaria proprio alla vigilia dell’approvazione dei bilanci, che saranno un bagno di sangue e di reputazione.

Per molti dirigenti si trattava di un momento make it or break it, “o la va o la spacca”. Ma la reazione furiosa dei tifosi, delle federazioni, delle altre squadre e persino della politica ha spaccato il fronte, e ora anche il futuro dei manager è incerto. Ed Woodward ha annunciato che lascerà il vertice del Manchester United, mentre ieri era circolata voce delle dimissioni di Andrea Agnelli, poi smentite.

Daniel Levy dei Tottenham Hotspur si dice “dispiaciuto dell’ansia e dello sconvolgimento causato”, l’Arsenal ha emesso un comunicato ufficiale in cui ammette di “aver fatto un errore, e per questo ci scusiamo”.

Tutto parte (e si schianta) col calcio inglese

Non è un caso se dall’Inghilterra proveniva la maggioranza delle squadre. Il calcio inglese vale il 40% del mercato europeo e il 26% di quello globale. I grandi club sono controllati quasi tutti da azionisti stranieri (molti americani) ma i tifosi vivono il calcio con una passione che ricorda i film di Ken Loach più che le dinamiche di Wall Street. Il calcio popolare nasce come dopolavoro delle fabbriche, e infatti si sviluppa nei centri industriali (Manchester, Liverpool, Torino, Milano). Quando lo fa nelle capitali amministrative (Roma, Madrid) è per il volere di regimi che vedono i successi sportivi come strumento della propaganda ufficiale.

Gli “scissionisti” e i loro advisor finanziari avevano puntato tutto su un mercato globale: se anche perdiamo i tifosi sotto casa, ne guadagneremo milioni in Asia, Africa e Stati Uniti dove riconoscono i marchi e non si curano del lato sentimentale, cercano solo partite di cartello e campioni riconoscibili. Ma sono i cori del Liverpool, che raccontano la storia di una città, a commuovere chi guarda il calcio in qualunque parte del mondo, non la vetrinetta dei trofei.

Tra politica, società ed economia

Era possibile rivoluzionare il calcio europeo senza il sostegno dell’asse franco-tedesco? Non serve il senno di poi per capire che si trattava di una scommessa suicida, soprattutto dopo la Brexit e con le finanze scassate di Italia e Spagna, da cui provenivano le altre sei squadre. Il Psg, a lungo corteggiato, è stato fermato sia dal governo francese che dagli azionisti: il Qatar ospita i controversi Mondiali 2022, agli emiri mancava solo di mettersi contro la Fifa.

In Germania invece non ci hanno proprio pensato, e Angela Merkel a differenza di Johnson, Macron e Draghi non ha neanche dovuto fare la fatica di opporsi. Le squadre tedesche (secondo mercato europeo) hanno conti a posto, si reggono su un modello sostenibile e macinano vittorie nelle coppe mentre le rivali macinano perdite e bilanci sottocapitalizzati. Non si sono fatti attrarre dal modello degli Stati Uniti dove – va ricordato – per vedere un incontro di wrestling si pagano anche duemila dollari; l’Nba si nutre di un campionato universitario di enorme successo e ha la draft che funge da “livella”; le franchise del football si spostano da una città all’altra; e altre decine di caratteristiche che i magnifici 12 non avevano neanche pensato di adottare.

Sotto il profilo aziendale, poi, è stato totalmente ignorato un elemento: il calcio è un’economia di rete. Le grandi squadre esistono perché esistono le piccole che sfornano calciatori, che costruiscono cantere, che scommettono su giovani talenti e li fanno crescere nella speranza di aver trovato il biglietto della lotteria, ovvero il nuovo campione la cui vendita potrà tenere in piedi i conti. Salah non nasce a Liverpool ma cresce in un campetto egiziano, gioca per anni in una squadra del Cairo, poi si affina a Basilea, Londra, Firenze, Roma, prima di arrivare “fatto e finito” tra i Reds aiutandoli a vincere Champions e Premier League. È una questione di “nodi”: più ce ne sono e più un’economia è efficiente. 12 non bastano, non sono in grado di sviluppare da sole un sistema di calciomercato sofisticato come quello attuale.

Una Super Lega boicottata da Fifa, Uefa e federazioni nazionali nel giro di qualche stagione avrebbe avuto difficoltà a trovare calciatori. Certo, gli svincolati possono giocare dove vogliono, ma avrebbero dovuto rinunciare alle nazionali, e in caso di ritorno nei campionati locali avrebbero trovato l’ostilità di società e tifosi, un po’ come quei calciatori che all’apice della carriera hanno preferito andati in Russia, Cina, paesi arabi o Stati Uniti a incassare milioni con tanti saluti al bel gioco. Legittimo, ma costoso in termini reputazionali.

Cosa succederà?

Il progetto ha più che un piede nella fossa. Il piano originale aveva due scenari. Quello più probabile, inutile negarlo, prevedeva una iniziale fase muscolare e una successiva trattativa con l’Uefa, con la Super League a fare da pistola sul tavolo. I 12 club avrebbero ottenuto una fetta maggiore dei diritti, più potere decisionale, e un ricatto da tirare fuori nei momenti critici. Lo scenario meno probabile, cioè la nuova lega che effettivamente va in porto, avrebbe quanto meno garantito i miliardi raccolti dalle banche d’affari e permesso ai dirigenti di mantenere la poltrona.

Ora, dopo gli annunci dei manager inglesi, che ricordano certi hara-kiri giapponesi, e lo sfilarsi notturno degli interisti, Florentino Perez e Andrea Agnelli non hanno molte opzioni. O trovano subito altre squadre, o si ritrovano in mano un torneo a 5 buono per qualche partita estiva. John Elkann, azionista di controllo della Juventus (che stamattina perde in borsa il 10% in apertura di seduta), è da un po’ che non vede di buon occhio la gestione del cugino, e si mormora già dell’arrivo di Alessandro Nasi, altro membro della famiglia più low profile ma molto stimato.

Secondo Perez, se i top club come il suo non guadagnano di più, “sarà l’intero sistema del calcio a crollare”. La sua mossa sembra solo aver accelerato i tempi.

***Aggiornamento: Andrea Agnelli, scrive l’Ansa, sostiene che “senza i club inglesi la Superlega non esiste più”.



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