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Giornata della Terra, tra speranze e illusioni. La riflessione di Malgieri

Abbiamo dimenticato da tempo che noi siamo usufruttuari della Terra. Nulla ci appartiene in eterno. Il nostro compito, secondo il diritto naturale, è utilizzare le risorse per vivere, non consumarle fino al loro annientamento. Gennaro Malgieri celebra la Giornata della Terra ricordando due autori americani, Henry David Thoreau e Wendell Berry, che hanno incentrato le loro opere sull’uomo e il suo rapporto con la natura

Celebriamo oggi, come da cinquantuno anni, la Giornata della Terra (Earth Day) nome il cui significato racchiude la salvaguardia del nostro Pianeta. E in un tempo nel quale la pandemia l’avvolge, rendendolo estraneo ai nostri sguardi e ai sentimenti che pur dovremmo provare a raccogliere per comporre una preghiera agli spiriti che sentiamo più affini alle nostre sensibilità.

DA DOVE NASCE LA RICORRENZA DEL 22 APRILE

Molte le iniziative, moltissimi gli articoli dei giornali, il web letteralmente invaso di appelli a maggior gloria delle Nazioni Unite che, ufficialmente la istituirono nel 1970, stabilendo la ricorrenza il 22 aprile. L’ispirazione deriva dalla pubblicazione, nel 1962 del manifesto ambientalista, Prima era silenziosa della biologa statunitense Rachel Carlson.

Nel 1969, in una conferenza dell’Unesco a San Francisco, l’attivista pacifista John McConnell propose una giornata per celebrare la Terra nel primo giorno di primavera. Questa giornata di equilibrio della natura è stata poi sancita in una proclamazione scritta da McConnell e firmata dal Segretario Generale delle azioni Unite U Thant. Un certo ambientalismo politicizzato ne ha fatto un appuntamento al quale si dà scarso risalto ormai posto che le problematiche che dovrebbero essere agitate riempiono il calendario tutto l’anno, ma la situazione generale non migliora. La Terra, anzi, muore. La distruzione degli ecosistemi, la deforestazione, l’inquinamento dei profittatori delle risorse naturali, la devastazione di consistenti aree del Pianeta connesse all’espansione delle megalopoli, l’esaurimento delle energie non rinnovabili (carbone, petrolio, gas naturali) inducono ad un de profundis piuttosto che ad una celebrazione della Terra. E per quanto si insiste nel sottolineare la necessità di limitare gli effetti negativi dell’applicazione dell’avidità umana allo sfruttamento della natura, nulla sembra progredire, ma al contrario le elevate emissioni di gas, i mutamenti climatici, la scomparsa di popoli nascosti nelle foreste pluviali fanno temere il peggio.

L’AMBIENTALISMO E LE SUE CONTRADDIZIONI

Alcune soluzioni sarebbero alla portata di uomini e Stati, ma i risultati sono oggettivamente poveri: dal riciclo dei materiali alla conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, dal divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, alla guerra per bonificare i mari dall’invasione della plastica, dalla cessazione della distruzione di boschi umidi e alla protezione delle specie minacciate.

Tutto sembra inutile. E così nella Giornata della Terra raccogliamo la tristezza di un grido che non è abbastanza forte, coperto dai rumori dell’edonismo e della massificazione dei consumi.

Abbiamo dimenticato da tempo che noi siamo usufruttuari della Terra. Nulla ci appartiene in eterno. Il nostro compito, secondo il diritto naturale, è utilizzare le risorse per vivere, non consumarle fino al loro annientamento. Conservare significa stabilire un rapporto di rispetto con l’ambiente, con la natura, con le identità culturali, con il capitale materiale del quale ci serviamo, con l’anima dei popoli non meno importante delle anime dei singoli e con le relazioni che queste stabiliscono con il trascendente.

La riduzione dell’ambientalismo ad ideologia irenistica è propria di movimenti che sublimano il loro fallimento politico abbracciando la sterile difesa della territorialità (come se tutti gli altri volessero la sua distruzione) quale motivo di sopravvivenza e legittimazione del loro protagonismo. Quasi ovunque l’ambientalismo è considerato il contrario del conservatorismo. Non è così. E la dimostrazione sta nel concetto stesso di conservazione, tanto da non meritare neppure di essere esplicitata.

Al contrario, l’ideologia ambientalista è l’opposto di ciò che pretende di difendere per il semplice fatto che il suo scopo non è di tramandare, trasmettere, lasciare in eredità, ma di “amministrare”, hic et nunc, l’esistente che altro non è se non la fisicità di ciò che appare, non il suo divenire e, quindi, la trasformazione del reale in senso dinamico e connesso ai progetti storici.

Insomma, le contraddizioni tra le quali dispiegano la loro azione gli ambientalisti sono macroscopiche e rivelano non soltanto la confusione nella quale si dibattono, ma anche l’inconsistenza delle loro tesi. Diversamente, dovrebbero riconoscere l’equilibrio ambientale come parte essenziale di un durevole ordine sociale; ma è proprio l’ordine sociale che essi mettono in discussione con le loro teorie sull’illegittimità del profitto e dell’uso del capitale materiale, oltre che con il disconoscimento delle identità culturali fondamento delle nazioni e delle società ben organizzate.

Il perseguimento dell’ordine e dell’equilibrio sociale è il presupposto di qualsiasi politica ecologista. Sovvertire questo principio equivale a sconfessare lo stesso ecologismo. E a legittimare proprio ciò che gli ambientalisti di professione dicono di avversare, cioè l’avidità umana. Fino a quando non ci si convince che siamo noi, come consumatori irriflessivi ad amplificare la domanda che induce quelli che sono stati definiti i “giocatori del mercato” alla depredazione, senza porsi il problema dell’eredità da lasciare alle generazioni future, l’ecologismo è destinato a restare un puro conato retorico rispetto al quale le politiche tese alla salvaguardia dell’ambiente sono destinate a non sortire alcun effetto.

In altri termini, come ha sottolineato Roger Scruton, riprendendo una tesi cara a Burke e De Maistre, non meno che a Hegel, è necessario “riconoscere che la protezione dell’ambiente è una causa persa se non riusciamo a trovare la motivazione umana che dovrebbe condurre la gente in generale… a portare avanti”. In questo senso ambientalisti e conservatori potrebbero fare causa comune, dice il filosofo inglese. Una causa che s’intitola alla difesa della “lealtà locale” o, più comprensibilmente, a quella nazionale. E per un semplice motivo. Scrive ancora Scruton: “Visto che le nazioni sono comunità con una struttura politica, predisposte ad affermare la loro sovranità traducendo il sentimento comune di appartenenza in decisioni e leggi collettive emanate volontariamente”, dovrebbe essere naturale difenderle in base al principio di nazionalità che è una forma, anzi la forma per eccellenza, di attaccamento al territorio.

L’ECOLOGISMO SPIRITUALE DI HENRY DAVID THOREAU 

A poco più di due secoli dalla nascita, il poliedrico ed eccentrico intellettuale americano Henry David Thoreau (Concord, 12 luglio 1817-Concord, 6 maggio 1872), non cessa di stupire per l’attualità del suo ecologismo “spirituale”, si potrebbe dire, lontano dall’irenismo di certo ambientalismo contemporaneo. Filosofo, scrittore, poeta e, a suo modo, “ideologo” della disobbedienza civile, Thoreau ha influenzato innumerevoli statisti e pensatori trascinandoli nel fiume impetuoso di un naturalismo nel quale i diritti civili avevano un posto preminente nella considerazione che l’essere umano è essenzialmente un elemento (o soggetto) naturale e, dunque, partecipe del cosmo in una visione trascendentale, come pure credeva uno dei suoi ispiratori, Ralph Waldo Emerson.

Per Thoreau il rispetto della natura e l’immedesimazione in essa non è un processo volto al banale raggiungimento “estatico”, ma una pratica filosofica dalla quale è possibile pervenire ad uno stato di benessere fisico e spirituale.

Nei suoi due libri più importanti, Walden, una sorta di autobiografia legata al mondo della foresta ed alla pratica dell’esplorazione boschiva che coincide con quella interiore,  e  Disobbedienza civile,  nel quale sostiene la “moralità” della negazione del rispetto acritico delle leggi quando esse contrastano con il diritto naturale e la coscienza umana, prepara, in una certa misura, la reazione alla modernità da un lato incentrata sul dominio totalizzante delle macchine e dall’altro allo statalismo quando diventa oppressivo.

Walden, al riguardo, è un libro emblematico ed assai suggestivo. Angosciato dalla perdita prematura del fratello, Thoreau mise in pratica gli ideali nei quali si era immerso e per rendersi meno “vulnerabile” e più coerente in ciò che aveva spiritualmente maturato, per sperimentare una vita semplice ed opporsi fattivamente al sistema (svincolarsi dagli obblighi e dalle costrizioni innaturali ed abbandonare il mondo che lo condizionava attraverso la materialità della tecnica invasiva che aveva snaturato il lavoro). Nel 1845 si stabilì in una piccola capanna da lui stesso costruita presso il lago di Walden (Walden Pond), nel Massachusetts dove si dedicò a tempo pieno alla scrittura e all’osservazione della natura, esercizio intenso e gratificante dal quale venne fuori il suo libro più appassionato che insieme con altri, dello stesso tenore, forma la trama del volume Tra cielo e terra, un’antologia a cura di Stefano Paolucci, (Piano B), nel quale è condensato il “naturalismo” di Thoreau.

Protagonisti assoluti del libro sono gli uccelli nel loro elemento naturale: il bosco, la montagna, la campagna incontaminata. L’autore si sente come loro: libero e solo, avventuroso e distante, incantato e ricco della gioia di partecipare ad un rito senza fine: la nascita ed il tramonto delle stagioni attraverso il “protagonismo” degli uccelli. “Un silenzio notevole regna sempre nei boschi, e il loro significato sembra sempre sul punto di maturare in espressione. Ma i boschi, ahimè, non si danno fretta! Il passero campestre, il menestrello delle ore serene della Natura, cosa nota di ozi immensi e di immensi spazi di tempo”. Il lirismo di queste parole è la prova di un animo trasfigurato dalla intensità con la quale viveva, della natura, nel caso in specie dall’osservazione degli uccelli come la poiana coda rossa che resta lontana dalle città per preservare la sua indole selvaggia, dunque primitiva, dunque elementare e perciò vera: ciò che Thoreau aspirava a conquistare. E dagli uccelli, compagni di solitudine, lo scrittore trae la convinzione che lo stato selvatico è una forma di civiltà diversa dalla nostra.

Thoreau non si limita a constare il volo degli uccelli, per concludere che lo stato di natura è preferibile alla società degli umani. Aggiunge, con parole che non possono lasciarci indifferenti, la sua adesione ad una visione della vita che fuoriesce dal “cattiverio” delle convenzioni. Leggiamo: “Odio i musei: nulla grava di più sul mio spirito. Sono le catacombe della natura. Un verde germoglio primaverile, l’amento di un salice, il fioco trillo di un uccello migratore basterebbero da soli a rimettere il mondo in piedi”.

Parole che un secolo dopo, ad altre latitudini, il più grande filosofo del Novecento, non meno amante dei boschi ed abitante nella Selva Nera come rifugio estremo, Martin Heidegger, avrebbe condiviso ed esaltato nella sua opera e nel richiamo a una classicità che dalla natura suggeva la linfa che l’animava.

Ma Thoreau non si limitava a scrutare il volo degli uccelli: la natura, in qualche modo, voleva “possederla”. Sempre Paolucci, (Piano B), ha messo insieme i pensieri dello scrittore americano sotto il titolo Camminare. È un libro che invoglia perfino i più sedentari ad intraprendere cammini mai immaginati. Perché camminare è un’attività dello spirito prima che del corpo. Ci si muove con l’anima e con la mente e soltanto strumentalmente con le gambe. “Mi allarmo – si legge in Camminare – quando mi succede di accorgermi di aver camminato per un miglio solamente con il corpo, senza essere presente con lo spirito. Nella mia passeggiata pomeridiana vorrei dimenticare tutte le mie occupazioni del mattino e i miei obblighi verso la società (…) Quello che desidero quando cammino è ritornare in me, riacquistare i sensi. Che senso ha restare nel bosco, se sto pensando a qualcosa che sta fuori dal bosco?”.

È proprio così. L’arte di camminare è connessa all’apprezzamento della natura. Soltanto in essa riusciamo a ritrovare a noi stessi, fuggendo il rumore, il nauseante odore della modernità, lo spaesamento del quale siamo vittime. Thoreau l’aveva capito, e disobbedì alla sua maniera alle convenzioni. Walden, tanto per dire, ci mise due anni per scriverlo, osservando gli uccelli e camminando nelle foreste; riappropriandosi insomma di se stesso scoprendo una semplice verità: “Noi apparteniamo alla comunità”. Una consapevolezza che si può attingere soltanto considerandoci parte della natura, tra cielo e terra, percorrendo i sentieri dell’esistenza alla ricerca di una libertà interiore che nessun gadget può offrirci a meno di non votarci alla menzogna.

WENDELL BERRY: LA PRESERVAZIONE DEL PIANETA E L’ALIMENTAZIONE

Ma c’è un altro autore americano, tra i molti che potrei citare, la cui sorprendente attualità non può passare sotto silenzio quando si riflette sul rapporto tra vita e natura, tra sfruttamento delle risorse della Terra e necessità di sopravvivere senza distruggere. È Wendell Berry (Contea di Henry, Kentucky, 5 agosto 1934) autore prolifico che, tra l’altro, si è posto il problema della compatibilità della preservazione del Pianeta e l’alimentazione umana.

“Per cinquanta o sessant’anni – ha scritto –  ci siamo cullati nell’illusione che finché avremo denaro avremo cibo. Ci siamo sbagliati. Se continueremo ad offendere la terra e il lavoro che ci consentono di nutrirci, le scorte alimentari diminuiranno e ci ritroveremo con un problema molto più grave del crollo di quest’economia di carta. Il governo non sarà in grado di produrre cibo semplicemente regalando centinaia di miliardi di dollari alle società di agribusiness”.

Così parlò Wendell Berry. Era l’autunno del 2008. Da pochi mesi era divampata la più grande crisi economico-finanziaria moderna. Il mondo era in ginocchio. L’Occidente si sentiva perduto. Il visionario contadino-scrittore del Kentucky aveva formulato una diagnosi che gli gnomi dell’alta finanza e i loro manutengoli politici, arroccati negli impotenti Parlamenti e nelle tremebonde cancellerie dell’Est e dell’Ovest, avrebbero ignorato pur di non ammettere che l'”economia di carta” aveva inferto un colpo mortale alla Natura, ai diritti dei popoli, alla Terra Madre corrotta dall’avidità.

Nutrirsi, elementare è fisiologico bisogno umano, non è più un atto naturale, ma il prodotto della contraffazione del mercato alimentare che serve altri scopi a cominciare e dal sostentamento della “finanziarizzazione” dell’economia e dall’incitamento all’abuso dell’inessenziale. E spinge nel ritenere che mangiare non sia semplicemente un “atto agricolo”, vale a dire il prodotto finale del raccolto secondo le regole del rispetto della terra. È il primo caposaldo di un moderno “conservatorismo” che apre alla difesa dell’ambiente e della comunità umana tutt’una con il mondo circostante a cui appartiene. Berry, interrogandosi sul “piacere di mangiare” connesso alla natura dell’uomo e ormai svilito nelle varie forme che orridamente ci sommergono attraverso la televisione ed il web, osserva (Mangiare è un atto agricolo, Lindau): Spesso, alla fine di una conferenza sul declino della vita rurale e dell’agricoltura in America, qualcuno dell’uditorio chiede: ‘Cosa può fare chi abita in città?’ ‘Mangiare responsabilmente’ rispondo di solito. Naturalmente cerco di spiegare cosa intendo con questa espressione, ma mi sembra sempre di non aver detto abbastanza”.

E noi in questa Giornata della Terra rispondiamo adeguatamente e responsabilmente con i nostri atti, gesti, comportamenti alla richiesta che ci viene dal povero Pianeta dissestato, dalla nostra stessa esistenza di salvare in qualche modo la Natura? Temo di no. Temo che anche questa occasione passerà come tutte le altre volte. Vedremo strepitosi filmati sui ghiacci che si sciolgono, sulla Groenlandia che si avvia a diventare un deserto, sul Sahel che si consuma, sulle popolazioni che muoiono e sulle civiltà che si scompongono sotto la spinta dell’uniformità e della cancellazione delle culture da parte dei nuovi ignoranti iconoclasti. E passerà, come sempre, anche questo 22 aprile nell’indifferenza.


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