La potenza di fuoco messa su, grazie ai finanziamenti europei, ma non solo, è rilevante. Ai 191,5 miliardi in 5 anni, il governo ne ha aggiunti altri 30, con un aumento di oltre il 15 per cento. Probabilmente altri avrebbero preferito fare diversamente, nel rispetto del mito andreottiano: meglio tirare a campare, piuttosto che tirare le cuoia. L’analisi di Gianfranco Polillo
A giudicare dalle bozze del Pnrr – quelle che almeno siamo riusciti a visionare – non sarà facile prevedere i possibili risultati futuri. Se cioè i piani indicati dal governo potranno essere pienamente realizzati. Troppe le variabili in gioco. Soprattutto le inevitabili incertezze legate ad un intervallo temporale – 5 anni – in cui le accelerazioni sono improvvise. Lo si è visto in questi 15 mesi, che ci separano dalla venuta al mondo del flagello, rappresentato dal Covid–19.
Nonostante tutto, però, non ci sentiamo di condividere il sarcasmo con cui l’Economist condisce la sua corrispondenza dall’Italia. Mario Draghi non sarà certo l’uomo della Provvidenza. Ma qualcosa di diverso si intravede, nonostante il breve tempo passato, rispetto alle continue e reiterate vane promesse alle quali ci aveva abituato il Conte due. Naturalmente queste differenze non hanno ancora prodotto gli effetti sperati. Tuttavia gli effetti appaiono già evidenti, almeno in controluce. Ed è su questi che è necessario attirare l’attenzione.
A livello macro, la potenza di fuoco messa su, grazie ai finanziamenti europei, ma non solo, è rilevante. Ai 191,5 miliardi in 5 anni, il governo ne ha aggiunti altri 30, con un aumento di oltre il 15 per cento. Tutt’altro che poco, considerando i dati allarmanti del quadro della finanza pubblica. Con un deficit di bilancio cresciuto come un soufflé ed un rapporto debito/Pil che si avvicina pericolosamente alla soglia psicologica – quella del default greco – del 160 per cento. Probabilmente altri avrebbero preferito fare diversamente, nel rispetto del mito andreottiano: meglio tirare a campare, piuttosto che tirare le cuoia.
Atto di coraggio, di cui va dato atto. Ma di un coraggio ragionato. Quei maggiori stanziamenti sono un po’ un’assicurazione sulla vita. Finora le somme certe sono pari solo al 70 per cento dei 191,5 miliardi. La restante parte sarà assegnata solo a giugno del prossimo anno. Non vi dovrebbero essere sorprese, comunque meglio essere prudenti. Specie se, come nel caso in specie, non si ė chiamati a pagar dazio. L’eventuale maggior tiraggio della spesa, sarà infatti contabilizzata, ai fini del deficit, che vale per gli accordi di Maastricht, solo quando e se quelle somme saranno effettivamente spese, per far fronte ad investimenti che, contestualmente, avranno contribuito a far crescere il Pil. In un gioco a somma positiva.
L’uovo di Colombo? Forse. Ma solo avendo a cuore i problemi dello sviluppo, da mantenere al centro della riflessione sui destini del Paese. Fossero prevalsi gli slogan sulla “decrescita felice” e l’idiosincrasia per le varie forme di investimenti nelle infrastrutture (No Tav, No Tap e via dicendo) le scelte, con ogni probabilità, sarebbero state diverse.
C’ė poi un secondo elemento che balza agli occhi. L’enfasi riposta al tema degli “squilibri macroeconomici eccessivi”: dato di novità rispetto ad un dibattito finora troppo centrato sui soli aspetti di finanza pubblica: deficit, debito e via dicendo. Sostenuto da una schiera di cultori che spesso diventano più intransigenti degli stessi rigoristi. Quando c’è un dato di fondo che dovrebbe per lo meno dar da pensare.
“Nel corso degli ultimi anni, – è scritto nel Pnrr – gli indicatori utilizzati nella Relazione sul Meccanismo di Allerta (Alert mechanism Report – AMR) relativi all’Italia sono complessivamente migliorati e hanno lasciato fuori linea solamente due parametri, il rapporto tra debito pubblico e Pil e il tasso di disoccupazione”. Aspetto, quest’ultimo, che va approfondito. Italia, Spagna e Grecia presentano infatti i dati peggiori. Una sofferenza sociale preoccupante, destinata, se trascurata, ad innescare tensioni politiche sempre più difficili da gestire. Basti pensare alla Francia dei gilet gialli, che pure è meno esposta.
Da un lato, infatti, una disoccupazione rilevante: “L’Italia – si legge ancora nel Pnrr – è il Paese dell’Ue con il più alto tasso di giovani tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (NEET), e il tasso di partecipazione delle donne al lavoro in Italia è solo il 53,1 per cento, molto al di sotto del 67,4 per cento della media europea. Questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno, dove il processo di convergenza con le aree più ricche del Paese è ormai fermo”.
Dall’altro fa sempre notare il documento governativo: “Nell’ultimo decennio, la bilancia commerciale e le partite correnti hanno registrato surplus significativi. Il surplus delle partite correnti nel 2020 è stato pari al 3,6 per cento del Pil”. Ed allora fermiamoci un attimo. Da un lato abbiamo sottoccupazione dei fattori produttivi, il lavoro innanzitutto, ma non solo; dall’altro un eccesso di risparmio – l’equivalenza del surplus delle partite correnti – che non si traduce in investimenti. E, quindi, prende la via dell’estero, sotto forma di credito a favore dei nostri concorrenti. Nelle granitiche certezze dei nostri cultori dell’austerità qualche dubbio dovrebbe pur sorgere.
Che in Italia il meccanismo allocativo non giri come dovrebbe, è dimostrato da quella clamorosa contraddizione. Essa denuncia il limite delle politiche finora seguite. A loro volta figlie di quella tradizionale disattenzione per le politiche economiche in grado di generare sviluppo. Tema che viene sempre dopo qualche altra cosa: l’assistenzialismo mascherato con l’equità, la progressività del carico fiscale come clava contro i “ricchi”, quell’avversione per il rischio che porta al non fare con la scusa della lotta contro la corruzione e via dicendo. Lo si è visto nel rifiuto pregiudiziale contro le possibili Olimpiadi romane.
Ed ecco allora la spiegazione più vera del perché un Paese, che pure ha un’industria manifatturiera in grado di tener testa a tutti i suoi concorrenti esteri, è da tempo sprofondato nel baratro. L’euro, da questo punto di vista, non c’entra. L’Italia stava male anche durante gli anni ‘90. C’entra invece una cultura diffusa, figlia di una cattiva ideologia, di cui, specie a sinistra, si è fatto un uso eccessivo. Rimuovere quelle macerie – testimoni delle contraddizioni del ‘900 – è il primo passo di una pagina nuova, nella vita del Paese.